Più dignità, più sicurezza
Regolarizzare i migranti è un vantaggio per la nostra economia

Dignità del lavoro, sicurezza sanitaria, vantaggio per l’economia. Sono le dimensioni che rendono ragione della regolarizzazione dei «clandestini». Si stima siano 600 mila persone. Sono invisibili solo per chi non vuole vederli. È una occasione che non deve essere sprecata per visioni miopi. Gli aspetti in campo a mio avviso sono tre: la dignità del lavoro, la sicurezza sul piano sanitario, la dimensione economica. Vediamole una per una.
La dignità del lavoro non va neppure discussa. Un grande paese come l’Italia deve assicurare lavoro per tutti. È un dettato costituzionale che fa parte della grande tradizione cristiana e umanistica di un paese come l’Italia. Il lavoro è parte integrante della dignità di ogni persona e della stabilità della stessa società. Lo sfruttamento è il suo opposto. La disgrega irrimediabilmente. Occorre mettere subito un freno allo sfruttamento. Papa Francesco lo ha ripetuto ancora una volta mercoledì: «In occasione del 1° maggio, ho ricevuto diversi messaggi riferiti al mondo del lavoro e ai suoi problemi. In particolare, mi ha colpito quello dei braccianti agricoli, tra cui molti immigrati, che lavorano nelle campagne italiane. Purtroppo tante volte vengono duramente sfruttati.
È vero che c’è crisi per tutti, ma la dignità delle persone va sempre rispettata. Perciò accolgo l’appello di questi lavoratori e di tutti i lavoratori sfruttati e invito a fare della crisi l’occasione per rimettere al centro la dignità della persona e la dignità del lavoro». Il 22 settembre 2013, a Cagliari, incontrando i lavoratori aveva anticipato come questo tema sarebbe stato al centro del suo magistero. «Dove non c’è lavoro, manca la dignità! E questo non è un problema della Sardegna soltanto – ma c’è forte qui! – non è un problema soltanto dell’Italia o di alcuni Paesi di Europa, è la conseguenza di una scelta mondiale, di un sistema economico che porta a questa tragedia; un sistema economico che ha al centro un idolo, che si chiama denaro». Il cardinale Bassetti l’altro ieri lo ha ribadito: non dimentichiamo queste persone e troviamo la strada per una loro messa in regola.
Sul fronte della sicurezza sanitaria abbiamo una situazione quantomeno contraddittoria. Da una parte sono state introdotte e fatte rispettare regole rigorose di distanziamento sociale e stiamo tutti constatando i vantaggi ottenuti in termini di contenimento e riduzione dei contagi, in vista di una ripresa delle attività economiche, commerciali, sociali. Come possiamo pensare, allora, di avere 600 mila persone in qualche modo fuori controllo? Gli irregolari, anche se invisibili, esistono sul territorio. Hanno alle spalle storie di vita complicate, dolorose, difficili. Non possono continuare a restare ultimi, anzi come degli scarti. Vanno fatti emergere dalla zona grigia della loro irregolarità, uno per uno. Lo dicono le norme più elementari della sicurezza sanitaria per tutti noi. Non sono un tecnico della sanità, ma credo sia davvero irresponsabile lasciare questa bomba pronta per esplodere. Del resto, sappiamo tutti per esperienza diretta, che il coronavirus non conosce confini e non fa distinzione di persone. C’è bisogno di una saggezza in più in un momento di emergenza come quello che stiamo vivendo.
Sul fronte dell’economia la regolarizzazione è certamente vantaggiosa per il paese. È un ritornello che gli economisti da tempo ripetono. E credo che su questo il consenso sia largo. Nel Decreto in discussione, peraltro, saggiamente è compresa la regolamentazione anche degli italiani. Di tutti coloro che possono avere un contratto di lavoro. Credo che la pandemia cambi le carte in tavola, nel senso di spingere a regolarizzare il numero più alto possibile. Aiutando poi a trovare il lavoro chi non lo avesse al momento. Insomma la regolarizzazione aiuta l’economia e frena il contagio. C’è poi una lezione che dobbiamo apprendere da questo tempo: non possiamo continuare a comportarci come se gli obiettivi economici e finanziari fossero del tutto slegati dalla concreta realtà dei nostri territori e dalla visione di una società che non scarti nessuno.
Per restare al nostro caso, tanti lavoratori stagionali sono ormai parte integrante della nostra economia e lo sappiamo bene tutti: cittadini comuni, imprenditori e amministratori locali. La pandemia peraltro ha mostrato la fragilità della società e dei sistemi economici e politici costruiti su di un tessuto sociale che, oggi, è profondamente cambiato ed esige riflessioni e risposte nuove ed originali. L’architettura dell’umanità va ripensata in senso solidale, fraterno direi, costruendo società dove il diritto al lavoro e alla sussistenza sia garantito per tutti.
Già da ora dobbiamo avviarci in questa prospettiva. È una grande opportunità. Tenendo presente che la comune vulnerabilità ci rende consapevoli che le relazioni umane sono la vera forza per costruire un futuro solidale. Non basta la sola tecnica o la sola scienza. La scelta della solidarietà come sostanza della società non è affatto scontata, richiede umiltà e responsabilità, in eguale misura, da parte di tutti, scienziati, politici, intellettuali, gente comune. La solidarietà non è un bene residuo, al quale destinare gli avanzi di bilancio. È un bene primario, al quale assicurare le priorità dello sviluppo. La nostra reazione deve sviluppare «anticorpi solidali» per rilanciare il «bene comune» dei legami e della cura, dell’habitat e dell’ambiente: immunitas, qui, è communitas. La pandemia ha rivelato con chiarezza quanto l’individualismo sia una falsa domanda di libertà e il sovranismo una falsa risposta. La «rivoluzione della fraternità», abbandonata dalla modernità e rilanciata da Papa Francesco, deve essere la nuova fonte del diritto umano e il nuovo nome della democrazia compiuta.
È una antica convinzione dell’insegnamento cristiano. I Padri della Chiesa furono i primi a sottolineare il comune diritto di tutti a usare i beni della creazione: tutti hanno diritto ad abitare la terra. E i beni sono destinati all’intera famiglia umana. Un solo pianeta, una sola casa comune, una sola famiglia sebbene composta da tanti popoli. Il grande vescovo del IV secolo, Giovanni Crisostomo diceva: «Non condividere i propri beni con i poveri significa derubarli e privarli della vita. I beni che possediamo non sono nostri, ma loro».
L’attenzione per i poveri è il filo rosso che unisce venti secoli di storia cristiana. Così pure l’attenzione al lavoro e alla dignità umana come in esso si esprime lega l’intera vicenda cristiana. Il Concilio Vaticano II ha come raccolto in una nuova sintesi questo pensiero. E Papa Paolo VI, nella Populorum progressio, giunge a dire che la proprietà privata non costituisce per alcuno un diritto incondizionato e assoluto, e che nessuno è autorizzato a riservare a suo uso esclusivo ciò che supera il suo bisogno, quando gli altri mancano del necessario. La terra è della intera famiglia umana; tutti hanno diritto di abitarla e di viverla come la propria casa.
L’Italia del dopo Coronavirus inizia già da ora. L’intero Paese è chiamato a virare in una nuova direzione. È utopia? Certo. Ma senza visioni si resta dove si è, anzi si indietreggia. In questo tempo nel quale sperimentiamo una comune fragilità senza eccezione alcuna, siamo chiamati a farne una prospettiva di scelta positiva. La «fraternità» è l’anima di una globalizzazione a misura umana. E questo permetterà una alleanza nuova tra tutti.
Mi auguro che prevalga questa visione del futuro del nostro paese. La forza di questa visione ci permette di accogliere la sfida epocale di rendere l’Italia più solidale, più fraterna. Certamente in sicurezza, ma con quel surplus di umanità che rende grandi i popoli. Per noi credenti il «di più» di umanità, mentre ci rende cittadini responsabili della città degli uomini, ci aiuta ad affrettare la realizzazione del Regno che Gesù è venuto ad inaugurare sulla terra.
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