Il caso
Tutte le tappe di Mafia-appalti, quello strano stop all’inchiesta e il ruolo di Pignatone
L’ex procuratore capo di Roma, che oggi presiede il tribunale della Città del Vaticano, risulta indagato dalla procura di Caltanissetta nell’ambito del dossier Mafia e appalti. Indagati risultano anche l’ex pm Gioacchino Natoli e il generale della Gdf Stefano Screpanti, ai quali si ascrive presumibilmente l’insabbiamento di una antica inchiesta svolta dal sostituto procuratore di Massa Carrara, Augusto Lama, sui rapporti tra mafiosi Antonino Buscemi, Francesco Bonura e il gruppo Calcestruzzi di Raul Gardini.
Il ruolo di Pignatone
L’ipotesi della procura nissena è che Pignatone possa aver avuto un ruolo “in concorso” con gli altri due indagati e con l’allora procuratore Pietro Giammanco, morto nel 2018. Pignatone era stretto collaboratore di Giammanco, nemico giurato di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino. Francesco Pignatone, padre di Giuseppe, ex deputato Dc negli anni ’50 da cui poi si dimise, passò con Milazzo e negli ‘60 fu nominato presidente dell’Eras e poi, ritornato nello scudo crociato, fu eletto presidente dell’Ente siciliano della promozione industriale ESPI. Il Sistema gli si sarebbe ritorto contro nel momento in cui ha provato a scegliere il suo successore, tra Lo Voi e Viola. Lo Voi fu nominato alla procura di Roma e Viola a quella di Milano.
Le spartizioni degli appalti
Della vicenda Mafia e appalti ne parlò, in lungo e in largo, davanti alla Commissione Antimafia nel settembre 2023, l’avvocato Fabio Trizzino, marito di Lucia Borsellino. Finalmente affiora un quadro più preciso perché, in Sicilia, non c’è stata Tangentopoli – che non superò mai lo Stretto -, e perché ci fu la strage di via D’Amelio. Eppure fu Palermo la prima procura a scoperchiare il vaso di Pandora, da cui venne fuori l’inchiesta Mafia e appalti. Il pm che indagò per primo fu Giovanni Falcone con la collaborazione di Mario Mori e di Giuseppe De Donno. Con l’arrivo a Palermo di Mori la realtà, che era una specie di acqua cheta, si tramutò in cavalloni che mise in azione i Ros con intelligenza indagatrice ed efficacia ficcante nei confronti della mafia. La spia rossa si accese con l’assassinio, nel 1988, del mafioso Barbaro La Barbera, per ragioni legate alla spartizione di appalti pubblici nei piccoli centri di Baucina, Ventimiglia di Sicilia e Ciminna.
La pista giusta
Strano a dirsi, in questi appalti di poca importanza dei comuni innanzi detti, partecipavano imprese nazionali e questo insospettì gli investigatori. Naturalmente, il sindaco di Baucina, sotto pressione dei Ros, spifferò come si svolgevano le spartizioni degli appalti tra imprese, politici e mafia, dando così un panorama inedito, in cui tutti erano felici e contenti. Una sorta di Bengodi dell’illegalità di stampo mafioso. Scrive Mario Mori: “Quando iniziammo quel filone d’indagini non immaginavamo che avrebbe cambiato per sempre le nostre vite e ne avrebbe stroncate altre, quelle di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino”. Fino a quando Falcone fu a Palermo, le inchieste andarono avanti, seppure in salita, ma con la consapevolezza di seguire la pista giusta. Da quando Falcone si traferì a Roma, le inchieste subirono un freno. A Palermo si respirava un clima diverso rispetto al passato. Guarda caso, il sindaco di Palermo era Leoluca Orlando Cascio, che aveva fondato il movimento giustizialista la Rete, non si accorse che il burattinaio degli appalti era ancora l’ex sindaco di Palermo, Vito Ciancimino.
Prova ne sia che nella cassaforte del Comune era depositato, fin da tempi di Don Vito, il documento delle imprese di costruzioni nazionali che partecipavano agli appalti. Chi scoprì il tutto fu il pm Alberto Di Pisa, che stava per arrestare Orlando Cascio, ma di questa vicenda chi passò i guai, non fu il sindaco, ma il magistrato che fu accusato di essere il “Corvo” autore di lettere contro Falcone ed altri. Dopo quattro anni di via Crucis, Di Pisa fu scagionato. La chiave della svolta avvenne quando il capitano De Donno arrestò il cosiddetto “ministro dei lavori pubblici” di Cosa nostra, Angelo Siino. Un ufficiale di collegamento tra imprenditoria, politica e mafia. Le imprese erano quelle che battevano le carte a livello nazionale: dalla Tor di Valle di Roma alla Calcestruzzi di Ravenna, dall’Astaldi alla Cogefar, dalla Lodigiani alla Grassetto, dalla Todini alla Tosi, dalla Maltauro all’Ilva e alle imprese della Lega delle Cooperative. L’unico imprenditore siciliano era Filippo Salomone da Agrigento, fratello del pm di Brescia Fabio Salomone, che indagò su Antonio Di Pietro.
Il caso più eclatante fu quello di Raul Gardini, che si suicidò il giorno in cui avrebbe dovuto essere interrogato da Di Pietro sulla tangente Enimont. Ma il pm di Mani pulite era stato già informato prima da Falcone del dossier Mafia e appalti e, dopo la strage di Capaci, Borsellino gli parlò delle indagini e, altresì, che la Calcestruzzi era stata venduta al mafioso Antonino Buscemi. Gardini, che sapeva bene i fatti di Enimont e di Calcestruzzi, evitò l’incontro con Di Pietro e si tolse la vita. Dopo la strage di via D’Amelio c’è di tutto: il falso pentito Scarantino, depistaggi, poliziotti smemorati rinviati al processo a Caltanissetta, la valigetta di Borsellino, con l’agenda rossa, che passò da una mano all’altra delle forze dell’ordine sino ad arrivare a quella “magica” del capo della squadra mobile di Palermo, Augusto La Barbera, che la fece scomparire come nei giochi di prestigio. Fu lui, inoltre, ad inventarsi, con la complicità di altri, il bugiardo Scarantino. E poi, al centro di tutto il personaggio Giammanco, procuratore capo di Palermo, principale ostacolo della inchiesta Mafia e Appalti, sempre contrario di assegnarla a Borsellino. Però, all’improvviso, alle 7.16 del 19 luglio 1992 lo chiamò per rimetterlo al timone del dossier, e alle 16.58 ci fu la strage di via D’Amelio.
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