Un’agenda, un nome e due numeri. Per Enzo Tortora, ideatore e conduttore del fortunato programma Portobello, l’incubo giudiziario inizia così. L’accusa, che regge essenzialmente sulle dichiarazioni di due pentiti, Giovanni Pandico e Pasquale Barra, è quella di essere un “fedele ad honorem su Milano” della Nuova Camorra Organizzata e di essere coinvolto nel traffico di droga. Il 15 marzo 1983 vengono arrestati Giuseppe Puca, capo zona della N.C.O., e Assunta Catone, sua compagna. “Nell’occasione – si legge nella sentenza di appello che ha assolto Tortora da ogni insensata e dolorosa accusa – fu sequestrata anche un’agenda, erroneamente attribuita in un primo momento a Puca, contenente tra gli altri un nome erroneamente letto da tutti Enzo Tortora con due numeri 44.21.60 e 32.50.95”.

Guarda caso, qualche giorno dopo, il 28 marzo, Giovanni Pandico, detto “o pazzo”, che nell’ambito di quel procedimento aveva avviato un percorso di collaborazione e aveva già reso 4 lunghissimi interrogatori, consegna due elenchi dattiloscritti di persone aderenti alla N.C.O., distinti in “sudisti e nordisti”. Tra questi ultimi, sorprendentemente, spunta il nome di Tortora. E ciò, nonostante “già da sette giorni, precisamente nel secondo interrogatorio (…), aveva elencato una lunga serie di camorristi ad honorem (cioè della stessa categoria poi assegnata a Tortora) senza fare in alcun modo il nome del più celebre Tortora”. Che la ragione di questo improvviso “inserimento”, sia stato, in Pandico, “rafforzato dalle notizie pervenutegli nella caserma Pastrengo (ove era detenuto) dell’arresto a Lecce di Puca con il nome e il numero di telefono di Enzo Tortora nell’agenda “a lui” sequestrata”, è ciò che lascia intendere la Corte di Appello.

Un ritardo nell’accusa, in ogni caso, che i Giudici definiscono, con quella sagace ironia che permea tutta la sentenza, “sospetto”. Non pago, due giorni dopo il pentito aggiunge altri ghiotti dettagli sulla inverosimile “fidelizzazione” – per usare le parole dei due collaboratori di giustizia – di Tortora alla organizzazione criminale. “Precisava – si legge in sentenza – che quest’ultimo era stato nominato camorrista ad honorem dai Paolillo nel settembre – ottobre 1980” e che “poteva documentare (così si esprimeva) la veridicità di questa sua affermazione col seguente fatto. Enzo, così diceva testualmente Pandico, era rimasto debitore dell’organizzazione di una quantità di droga del valore di £.50 milioni, a suo dire smarrita e, quindi, non pagata alla N.C.O.”.

Proprio per questo, proseguiva Pandico, era stato dato incarico ad altro affiliato di “mettere sulla buona strada” Tortora, “per fargli pagare la partita di droga e al contempo di accertare se facesse il doppio gioco rifornendosi anche da altre organizzazioni”. Per questa ragione, in estrema sintesi, il suo nome e i suoi numeri erano appuntati nell’agenda a lungo erroneamente ricondotta a Puca. A menzogne si aggiungevano menzogne: il mese successivo, tra gli altri, il collaboratore di giustizia Barra “prendeva in esame i nomi dei camorristi fatti da Pandico e dichiarava di poter confermare senza dubbio che Enzo Tortora era camorrista regolarmente “fidelizzato””. Aggiungeva, poi, che Tortora aveva “partecipato a diverse operazioni di droga, nel senso che interveniva alla frontiera quando non si voleva rischiare”. Tanto è bastato per giustificare il clamoroso arresto di Enzo Tortora.

Il 17 giugno del 1983, non a caso al mattino, il noto presentatore TV viene trasferito a Regina Coeli e viene ripreso – con i ceppi ai polsi – da giornalisti e fotografi delle principali emittenti italiane. Questa scena diviene triste emblema della giustizia spettacolo. Eppure, qualche mese dopo, nel novembre 1983, “si acclarò che l’agenda sequestrata in occasione dell’arresto di Giuseppe Puca (la prova regina, n.d.r) non apparteneva al Puca, ma alla sua amica Assunta Catone e che il nome che tutti avevano letto in una delle pagine dell’agenda, Enzo Tortora, era invece Enzo Tortona”. Quest’ultima, interrogata dal Giudice Istruttore, “dichiarava (e le sue dichiarazioni risultarono vere) che i nomi ed i numeri di telefono nell’agenda sequestratale (…) erano scritti di suo pugno e che il nome scritto a fianco al numeri di telefono 44.21.68 e 32.5095 non era Enzo Tortora, ma Enzo Tortona, un suo conoscente di Caserta, titolare di un negozio di macchine per caffè “La Cimbali”, il cui numero di telefono era appunto 44.21.68, mentre l’altro numero era riportato anche in corrispondenza del nome di Onofrio Maria Antonia, una sua amica, ed apparteneva all’azienda “Sotero” (impianti di depurazione) di Caserta, dove la predetta sua amica lavorava, azienda trasferita a Maddaloni con altro numero telefonico.

Questo secondo numero di telefono era riportato anche sotto il nome di Enzo Tortona perché la sua predetta amica era fidanzata del fratello di Enzo Tortona, a nome Giancarlo, e lei aveva conosciuto Enzo Tortona tramite la Onofrio. Al G.I. che insisteva che il cognome che si leggeva nell’agenda era Tortora, non Tortona, la Catone rispondeva che si trattava sicuramente di Tortona, probabilmente scritto male”. Sarebbe bastato – come d’altronde chiedeva a gran voce Tortora – digitare quei due numeri di telefono per verificare che non erano riconducibili a lui. Sulle accuse del più “infido” dei pentiti, la sentenza di assoluzione della Corte di Appello di Napoli, intervenuta dopo la condanna a 10 anni in primo grado, è durissima: “come per molte altre sue accuse, Pandico viene a conoscenza di una qualsiasi notizia e la elabora a suo uso e consumo, che è sempre quello di arrecare danno ai suoi simili. Dovendo dare un signifi cato all’inserimento del nome di Tortora nell’agenda” inizialmente ricondotta a Puca, “costruisce subito il racconto, salvo essere regolarmente smentito quando poi si accerterà che nell’agenda predetta non era segnato il nome di Tortora, ma di Tortòna”.

La Corte racconta che Pandico – che nei confronti di Tortora aveva motivi, insensati e frutto di un delirio paranoico, di risentimento – “inserì nell’elenco dei camorristi, oltre ai veri camorristi (…) anche le persone nei cui confronti egli doveva consumare le sue particolari vendette, perché come scrisse di lui la Corte di Assise di Napoli già tredici anni orsono, egli appartiene a quella categoria di persone che soffrono e fanno soffrire la società”. Come a dire: come si è potuta ritenere attendibile una persona della quale già tredici anni prima una sentenza aveva accertato una grave psicosi? Anche su Barra i Giudici sono fermi: “È chiaramente un’accusa per adesione, per non smentire il compagno di pentimento su un nome così importante”. Con il consueto sarcasmo aggiungono che doveva “pur dire qualcosa su Tortora camorrista” e “fu costretto a inventare”. Eppure, quel che lascia perplessi, è che “tutte queste menzogne”, siano state tragicamente “tramutate in verità sacrosante” dall’Accusa e acriticamente recepite nella sentenza di condanna. Per fortuna, chiosa la Corte, tutte “le bugie vengono a galla”.

Maria Vittoria Ambrosone - avvocato penalista

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