Non è la pena, la condanna, il castigo a recuperare torto o male che sia. Jago dà una lezione a manettari e forcaioli prima che ai ragazzini, sembrano minorenni, che hanno preso a calci e pugni la statua che ha realizzato e che tutti hanno visto sui social o dal vivo in mezzo a Piazza del Plebiscito. Look down, invece che lockdown, l’aveva battezzata per ovvi motivi. Un neonato, poco più che un feto, incatenato a terra, ai sampietrini della Piazza più famosa di Napoli. Un’opera sui fragili, gli ultimi, i diseredati e dimenticati che ha fatto il giro del mondo. Su quel bambino si sono accaniti dei ragazzi, e si sono ripresi in un video diffuso poi sui social. Un classico ormai.

Jago, nome d’arte di Jacopo Cardillo, 33 anni, originario di Frosinone, a Napoli – e in particolare alla Sanità – trova quell’ispirazione e quella poesia che gli stessi napoletani a volte faticano a trovare nella loro metropoli. Look down l’ha piazzata nel cuore della città a inizio novembre. L’opera è stata raccontata nei termini aforistici e messianici come di solito in queste occasioni. Il bambino nudo e fermo è: il futuro, la responsabilità, la speranza, il grido di dolore, la solitudine, la fragilità, l’immancabile resilienza e un’altra manciata di metafore che neanche l’autore aveva ipotizzato

Dopo che le immagini dei ragazzi che hanno brutalizzato la sua scultura sono diventate virali, invece che condannare e sentenziare, di difendere la sua opera da un abuso abominevole, di schiumare rabbia e indignazione come pure molti suoi follower; Jago ha ri-postato quel video sui social e ha scritto: “Io sono certo che questi ragazzi siano altrettanto capaci di gesti meravigliosi, quindi se vorranno sarò felice di accoglierli nel mio studio per mostrargli cosa c’è dietro la realizzazione di una scultura”.

Quando si dice la rieducazione, la riqualificazione, il recupero. E quindi l’ascolto, la comprensione che può, e a volte deve, passare attraverso lo scontro oltre che l’incontro. Un movimento solo, tra il gesto che costruisce e quello che distrugge, fino in fondo alla creazione. L’artista ha spiegato a la Repubblica Napoli. “Sono l’ultimo a poter giudicare. Forte della lezione di Napoli e della Sanità che mi insegna nuovamente a stare al mondo ogni giorno, penso a che cosa si può fare. Chi opera su quel territorio usa gli strumenti della comunicazione, del perdono, della condivisione, dell’accoglienza, che sono gli stesso che diffondono i social con condividi e like – ha detto – Guardando ‘dentro’ questi ragazzi, puoi costruire un capolavoro”.

Niente di banale in tutte quelle risposte. Per esempio i social che ispirano non solo l’artista ma anche i vandali: il mezzo che detta l’azione, e non il contrario. E un’opera del genere, praticamente street art, che alla strada appartiene. Viene bene citare Banksy – l’unica sua opera in Italia, tra l’altro, proprio a Napoli – a piacere, ma è in questi casi che si coglie il senso. Quando Jago lascia quella statua a terra già ipotizza possa essere toccata, scheggiata, malmenata. E infatti così è andata. E ora Look down racconta perfino più di quando era linda e pinta.

Non è questo il caso, ma con il deturpamento o imbrattamento di cose di interesse storico o artistico, mobili o immobili (art. 639 del codice penale) non si scherza: reclusione da tre mesi a un anno e multa da 1.000 a 3.000 euro, senza tenere conto di recidive o aggravanti. E invece Jago ci crede davvero – in Napoli, “è il futuro”, dice – e sull’utilità del suo invito: “È quello che augurerei a me stesso: che qualcuno mi accogliesse, mi spiegasse”. Candidiamolo.

Antonio Lamorte

Autore