Venti anni fa moriva Robert Bresson (1901-1999), uno dei più grandi e meno riconciliati maestri del cinema francese. Se Adorno aveva ragione ad attribuire all’arte rivoluzionaria la funzione di negare l’esistente, di opporsi risolutamente all’estetica borghese, allora Bresson è stato certamente un cineasta rivoluzionario. Per capire la portata sovversiva del suo cinema si potrebbe partire dalla conferenza stampa di presentazione de L’Argent, il suo ultimo film, al 36° Festival di Cannes (1983). Quell’incontro è la rappresentazione ideale di un antagonismo profondo e non risolvibile: quello di un artista in lotta con lo spirito del tempo. All’epoca dell’uscita del film, finanziato con fondi pubblici, qualcuno aveva sollevato una risibile polemica per la presenza nel cast della figlia dell’allora ministro della Cultura Jack Lang: come se produrre i film di Bresson fosse un demerito e non un vanto. Questa polemica nascondeva un’insofferenza più ampia per il rapporto di Bresson con l’industria culturale, ma anche con il cosiddetto cinema d’essai: la sua refrattarietà a ogni compromesso con l’arte di regime faceva di lui un vero e proprio nemico dello Zeitgeist.

Durante la conferenza stampa i critici in sala si divertirono a provocarlo e ad attaccarlo: «Non trova che questo film sia frustrante per lo spettatore?», «Lei dice che nei giovani fino ai 35 anni c’è del genio. Lei dunque pensa di non averne?», «Se lei non crede negli attori, perché dunque esistono le scuole di recitazione?». Di fronte a questo fuoco incrociato di domande insulse, Bresson incalzò i giornalisti con un discorso fortemente politico, nel senso in cui questo aggettivo viene inteso dalle avanguardie. «Penso davvero che il cinema debba evolvere. Potrebbe diventare qualcosa di grande, di ammirevole, se non rimarremo fermi al teatro fotografato con gli attori. […] Prenda la pittura. Essa si è evoluta, non si è fermata ai primitivi». E spiegò che il solo modo affinché questo avvenga è di insistere sull’autonomia del cinema dalle altre arti, sul rifiuto della recitazione tradizionale, sul ruolo evocativo del suono. Anche a costo di mettere in secondo piano il profitto (l’argent, appunto) su cui il cinema si fonda.

Questo episodio ci dà di Bresson un’idea diversa da quella a cui siamo abituati. Quel cineasta che la vulgata dipinge come un rigido asceta, come il fautore di uno spiritualismo austero ma tutto sommato innocuo, si rivela in realtà un radicale sovvertitore. È sintomatico come i sostenitori di una lettura meramente spiritualista di Bresson si soffermino quasi sempre sulle stesse opere: sull’enfatico La conversa di Belfort (1943), sul fascinoso ma acerbo Diario di un curato di campagna (1951), sul fin troppo simbolico Au hasard Balthazar (1966), più problematicamente sui fondamentali Processo a Giovanna d’Arco (1962) e Mouchette (1967). E ignorino programmaticamente i temi laici e dialettici che attraversano – in misura crescente – la sua filmografia: l’approccio critico-negativo che informa la sua lettura della società, ma anche la messa in immagini; i rapporti non risolti tra individuo e razionalità sociale, il ruolo mortifero del denaro.

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