Le Ragioni di Israele
Yuri Arazi, l’imprenditore israeliano sotto le bombe: “Il mondo del business ci rispetta”

«È come un mezzo Covid. Non siamo nel confinamento totale com’è stato per la pandemia, ma la situazione è simile. D’altra parte, non possiamo mollare». Yuri Arazi è un imprenditore israeliano. 48 anni, nato a Pietrasanta da genitori libanesi, di religione ebraica. Ha studiato in Bocconi, a Milano. Dal 2012 vive ormai a Ra’anana, a una decina di chilometri da Tel Aviv. Vi è arrivato con la moglie, anche lei ebrea, ma nata a Londra. E tre figli. Che oggi sono diventati cinque.
Yuri, lei è appena uscito dal rifugio dopo l’allarme aereo. È questa la vostra quotidianità?
«Ormai ci siamo abituati, sì. Non abbiamo scelta. Viviamo in una condizione di precarietà che però abbiamo imparato a gestire. D’altra parte, quando ci siamo trasferiti qui, in famiglia ce lo siamo detti: proviamo, se non va, torniamo a Milano».
Perché vi siete spostati dall’Europa?
«Venivamo qui spesso in vacanza, ma, a un certo punto, abbiamo deciso di venire a viverci. Questa è la nostra terra. Israele inoltre, per il mio lavoro, rappresenta uno snodo nevralgico. A Tel Aviv c’è la Borsa internazionale dei diamanti. Qui ho rapporti con l’Asia per l’acquisto e con l’Europa per distribuzione e vendita».
Ecco, cosa vuol dire, per un imprenditore, passare da un’economia altamente innovativa, com’è quella israeliana, a un’economia di guerra?
«Significa fare di tutto per andare avanti. Tutte le attività ne stanno risentendo. La mia forse meno, visti i rapporti che ho con il Belgio e l’Italia. Mia moglie, che ha un negozio di abbigliamento di marchi italiani, lavora a momenti alterni. Per lei il problema vero è stato con il Covid. Ma c’è chi è più compromesso, perché lavora con il mercato interno. D’altra parte, sta andando a fiammate. Ci sono stati dei momenti di depressione e altri in cui è ed è stato evidente che Israele non voglia rinunciare a vivere. Feste, matrimoni, fidanzamenti. Perché dovremmo dire di no a tutta questa normalità?».
E in termini di mercato di lavoro? Il richiamo dei riservisti ha lasciato dei vuoti.
«I giovani stanno vivendo un anno e mezzo drammatico. Per i soldati di leva è un conto, ma tra i riservisti c’è chi ha fatto 4-500 giorni di servizio. Questo vuol dire abbandonare le proprie attività. Certo, il datore di lavoro ti tiene il posto, ma nel frattempo le cose si evolvono. Le imprese devono continuare a produrre. C’è un problema di scrivania vuota. Il lavoratore rimane indietro. Subentrano altre persone in sostituzione di chi è al fronte. Poi c’è chi ha aperto una propria attività ed è andato a gambe all’aria. È logico che una settimana come quest’ultima, da quando sono iniziati i bombardamenti dall’Iran, non si è fatto nulla. Lo stesso è stato per i due mesi subito dopo il 7 ottobre».
L’economia israeliana accusa il colpo?
«Non direi. Visto che la settimana scorsa la Borsa ha capitalizzato il massimo degli ultimi cinque anni. Però anche questo è un dato e basta. C’è euforia, da una parte, e disuguaglianze dall’altra. I militari ricevono il loro stipendio. C’è lo Stato che va incontro a chi non ce la fa, però non è sufficiente. Fortunatamente i nostri ragazzi sono sempre molto ambiziosi».
Questo dovrebbe essere un bene.
«È nella nostra natura. È l’unico modo per difenderci. La forza del nostro popolo sta nel migliorare sempre e comunque. Non siamo più bravi, ma dobbiamo esserlo per sopravvivere».
Torniamo alla sua attività. È cambiato qualcosa con i suoi interlocutori europei? In termini di pregiudizi, critiche…
«Per nulla. Anzi, sento il sostegno di tutti. Una cosa che va contro a quello che si legge sui giornali e sui social. L’avversione nei nostri confronti, nel mondo del business, non c’è. Indiani, italiani, belgi: raccolgo sempre messaggi di sostegno. Capiscono cosa stiamo vivendo e continuano a lavorare con noi».
E i suoi figli?
«Perfettamente integrati. E soprattutto consapevoli di quello che stiamo vivendo. Dopo il 7 ottobre, ho chiesto loro se volessero tornare a Milano. “Se ci porti via ora, non torniamo più dalla vergogna”. Mi hanno risposto così».
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