Gianni Cuperlo guidava la mozione “Prima le idee e poi gli organigrammi” nell’ultimo congresso del Pd. Figurarsi come c’è rimasto domenica quando in Segretaria Elly Schlein ha detto di voler mettere il nome nel simbolo: malissimo.

Allarme rientrato: la segretaria non metterà il proprio nome nel simbolo. Ha capito che era una scelta “divisiva”. Queste incertezze minano la tenuta del partito. «Capiamoci, se non discutiamo veniamo accusati di una deriva leaderistica. Quando ci confrontiamo, scatta la critica opposta. La segretaria ha fatto una scelta che dimostra capacità di ascolto e cura della comunità che dirige. Ha messo in risalto la forza delle nostre liste e la ricchezza di un partito plurale che sceglie di coinvolgere personalità di prestigio. Adesso parte una campagna elettorale decisiva per il futuro dell’Europa».

Era necessario comunicare una cosa così importante via Instagram? «Effettivamente poteva usare il telegrafo! Tutto sommato trovo abbia fatto benissimo a usare uno dei mezzi che parlano a questo tempo e che lei sa utilizzare con efficacia».

Ci saranno novità nella formazione delle liste dopo questa rinuncia? «Ci sarà quanto annunciato alla direzione, il completamento di una squadra solida che include competenze e percorsi diversi. Valuterà Elly se rendere la sua presenza più visibile».

Non si esclude nulla, quindi. Tanto rumore per nulla? «Io vedo il buono anche nel dibattito che abbiamo avuto. Si è ragionato e discusso com’è naturale in un partito che ancora considera i gruppi dirigenti il luogo dove ci si ascolta e si decide assieme. Non c’era nessun dramma attorno al simbolo: semplicemente, di fronte all’ipotesi di inserire il nome della segretaria, io – come altri – ho detto che il suo contributo sarebbe stato più prezioso e autorevole senza una scelta non corrispondente alla mia idea di partito. Poi Elly ha parlato di una soluzione divisiva e questo conferma la sua capacità di guida e di ascolto».

Domenica ha detto che Schlein sarà “più forte se non metterà il nome nel simbolo, una cosa che il Pd non ha mai fatto”. Ha vinto lei? «Da almeno un quarto di secolo abbiamo convissuto con partiti e movimenti sempre più identificati con le loro leadership. Non mi pare sia stato un modello che ha rafforzato il nostro sistema politico. La mia impressione è che si sia scambiata una personalizzazione inevitabile con la rinuncia a definire meglio le identità di quelle forze. Il Pd ha rappresentato un’eccezione perché, con tutti i nostri limiti, abbiamo provato a non sacrificare l’idea di comunità che non dipende da un capo. Peraltro, identificare il simbolo con un nome ha senso in una competizione monocratica dove si vota la persona indicata come sindaco o presidente di regione. Le europee sono elezioni proporzionali dove la logica è diversa».

Come si sarebbe conciliato il partito plurale, la casa comune di tante anime, il “noi” al posto dell’ “io”, cioè il Pd, con una svolta così personalistica? «Non la leggo così. Da dopo le primarie di un anno fa Elly Schlein incarna la domanda di un partito da rinnovare in profondità. Lei ha la capacità di attrarre alle ragioni della sinistra una quota di elettori delusi e disamorati. Mettere a frutto questa opportunità è un valore aggiunto. Obiettivo più che giusto, ma la soluzione indicata non era altrettanto convincente».

Volere il proprio nome nel simbolo sarebbe stato un segno di debolezza o di forza? «Né l’una cosa né l’altra. Come ha spiegato la stessa segretaria replicando al dibattito, lo spirito che sorreggeva la proposta era aiutare il Pd e le nostre liste ad allargare il perimetro del consenso. Penso che lo farà con più efficacia e autorevolezza conducendo una campagna tra mercati, strade e piazze, social, radio e tivù».

Sarebbe stato un precedente anche in vista delle politiche? «Domenica, concludendo la riunione è stato detto con chiarezza che non c’era quella intenzione. La scelta riguardava unicamente il simbolo sulla scheda del prossimo 9 e 10 giugno. Per evitare interpretazioni diverse da questa, direi che è saggio affrontare una discussione seria, dopo il voto, sulla natura e riforma del Pd».

Viene da pensare che una volta messo il nome nel simbolo, il Pd sarebbe stato a favore dell’elezione diretta del premier così come prevista dalla riforma che vuole Meloni. «Ma no, erano e rimangono cose del tutto diverse e sulla riforma del cosiddetto premierato condurremo un’opposizione netta, senza ambiguità. Per parte mia nella convinzione che dovremo usare ogni strumento regolamentare, compreso l’ostruzionismo, e in caso di referendum confermativo, trasformare quell’appuntamento nella battaglia principale della legislatura».

Perché Bonaccini ha deciso di dare il via libera alla richiesta di Schlein? «Va chiesto a lui, conoscendolo posso supporre che abbia prevalso uno spirito unitario. In questo caso ho l’impressione che l’unità la si sia preservata meglio con una riflessione franca nella sede deputata, che è la nostra direzione».

Bonaccini capolista nel Nord-est, Schlein al Centro e nelle Isole. Che succede se il presidente del Pd, leader della minoranza, dovesse prendere più voti della segretaria? «Diciamolo una volta per tutte, un partito non è un derby sulle preferenze dell’uno o dell’altro. Spero che entrambi spingano il Pd al risultato migliore. D’altra parte con due guerre in corso e una destra sempre più ostile a valori e principi liberali sarebbe un paradosso concentrare la sfida tra di noi anziché costruire in un gioco di squadra l’alternativa più credibile rivolta all’esterno».

Prodi è stato molto severo. Parla di “ferita alla democrazia”. «Si è riferito a candidature consapevoli fin dall’origine che non andranno a Bruxelles. Prodi va ascoltato sempre, anche quando i suoi giudizi si rivelano aspri. Parliamo di una personalità che all’Europa ha dedicato ogni energia e ha guidato quell’opera di allargamento che rimane una testimonianza della migliore tradizione di un continente capace di integrarsi e convivere».

Lei ha anche detto che Schlein è meglio di tanti “personaggi”, da Meloni a Salvini passando per Renzi e Calenda. «Ho usato un’espressione infelice della quale mi scuso anche perché per stile e formazione non personalizzo mai. Lo dico in particolare verso Renzi e Calenda da cui mi separa molto, con cui ho discusso e forse ancora discuterò, ma che rispetto al di là di un’uscita sbagliata».

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.