La pioggia di due mesi caduta in poche ore, fiumi in secca e improvvisamente ingrossati anche oltre i dieci metri rompendo argini di terra e balzando come il Lamone sulle aree urbane da Faenza a Bagnocavallo, e poi frane, strade allagate, ferrovie in tilt, scuole chiuse, abitazioni crollate o sgomberate, tanta paura e gli appelli della Protezione Civile a salire ai piani alti, e per oltre cinquemila persone a tenersi “pronti all’evacuazione”, e purtroppo morti e dispersi. È l’ultimo tragico bollettino che racconta un pezzo di Emilia Romagna, dall’Appennino alla pianura bolognese e ravennate sotto botta e in piena emergenza.

È l’Italia, bellezza!”, liquiderebbe così un Humphrey Bogart di passaggio le angoscianti scene di devastazioni che in queste drammatiche ore si aggiungono alla nostra Spoon River da dissesto idrogeologico. È vero. È proprio questa l’Italia, tra i territori più fragili, che riesce a passare in poche ore dall’allerta rossa per la poca acqua al dramma della troppa acqua.

L’acqua, come un Giano bifronte dell’odi et amo, in poche ore ha sollevato fiumi e torrenti su città e campagne fino a ieri alle prese con la lunga siccità storica. L’ultimo avviso di quanto siamo ormai sotto i colpi di eventi meteoclimatici tropicalizzati e che ci ostiniamo a considerare “estremi” quando ormai sono sempre più ordinari con uragani che spazzano via litorali, nubifragi che gonfiano fiumi all’inverosimile, tempeste che stravolgono territori, erosioni costiere e mareggiate.

Dovrebbe essere chiaro a tutti che la nostra è una penisola-catalogo di rischi meteo-climatici per collocazione geografica in un Mediterraneo dove le temperature corrono a una velocità del 20 per cento superiori alla media globale, per avere due terzi di superficie con montagne e colline geologicamente “giovani” con terreni argillosi e sabbiosi e tra i più franosi e dalla media di uno smottamento ogni 45 minuti. L’Ispra ha censito la cifra record di 628.808 frane attive dalle Alpi alle Madonie sul totale delle circa 750.000 frane dell’intero continente europeo, e i centri funzionali della Protezione Civile monitorano in real time le 2.400 più pericolose. Siamo poi beneficiati dalla più elevata media annua di precipitazioni europea con 301 miliardi di metri cubi, e conviviamo con il più ricco e il più aggrovigliato reticolo di acque con ben 7.494 corsi d’acqua di cui 1200 sono fiumi ma tutti dal regime torrentizio che li fa sparire se non piove e devastare se piove troppo.

Sono oltre 5.400 le alluvioni e più di 11mila le frane che ci hanno colpito negli ultimi 80 anni lasciando circa 6mila morti, migliaia di feriti, milioni di sfollati e danni in media per 4 miliardi all’anno ogni anno dal dopoguerra ad oggi. E oggi 7.275 Comuni sul totale dei 7.904, cioè praticamente tutti, hanno aree al loro interno a rischio frane, alluvioni o erosione costiera. Le nostre superfici classificate a pericolosità molto elevata sono vaste 59.981 km2, il 20 per cento del territorio nazionale con dentro tante infrastrutture primarie. Le regioni con i valori più elevati di popolazione sotto la spada di Damocle del dissesto idrogeologico sono l’Emilia-Romagna con quasi 3 milioni di abitanti, la Toscana con oltre 1 milione, la Campania con oltre 580mila, il Veneto con quasi 575mila, la Lombardia con oltre 475mila e la Liguria con oltre 366mila.

E 1.3 milioni di italiani risiedono in zone ad elevato rischio frane e 6.8 milioni a rischio alluvioni, per complessivi 8.1 milioni di cittadini maggiormente esposti al pericolo insieme al 14.1 per cento delle industrie nazionali e al 21.1 per cento dei beni culturali.Ma l’altra verità è che questa nostra elevata rischiosità naturale è stata enormemente aumentata con una estesa e tollerata anarchia urbanistica, nel segno della deregulation. Abbiamo moltiplicato la potenza distruttiva di un evento occupando le aree più fragili come se vivessimo in un’Italia virtuale, costruendo abusivamente o legalmente – non fa differenza ai fini del rischio – e creando rischi dove prima non c’erano, aggiungendo cemento su scarpate, versanti in frana, alvei di corsi d’acqua nell’abbandono di ogni manutenzione e nell’allergia alle opere di prevenzione.

Con spregiudicatezza istintiva, viviamo oggi in località dalla toponomastica “ammonitrice”: Fosso o Fossa, Pantano, Bagnolo, Marana, Pozzallo, Peschiera, Maranella, Stagno, Fontanelle, Padule, Palude, Piscina, Lago, Fiumara, Acquapendente, Acquaviva, Acquafresca, Acquedolci, Acqua Traversa, Rio Fresco, Rio Secco, Rio Corto, Fonte, Canale, Fossato, Riva, Isola, Rotta, Foce, Isola Persa, Morene, Campo, Catino, Mortizza…

Nei soli confini di Roma Capitale troviamo indicazioni stradali da brivido di aree densamente urbanizzate come Infernetto,Punta Maledetta, Punta Malafede, via Affogalasino, Isola Sacra, via delle Idrovore, Bagno, Bagnoletto, Settebagni. I nostri ritmi di edificazione sono unici nel continente e ci hanno fatto balzare dal 2.3 per cento del suolo nazionale occupato da costruzioni in duemila anni di vicenda storica fino al 1950, al clamoroso 8.3 per cento di suolo edificato di oggi. Triplicato il consumo di suolo nel flash di appena sette decenni. Possiamo espandere le città? Certo, ma non su vietatissime aree alluvionali e franose, fuori dai piani regolatori e approfittando dei tre condoni edilizi, più il quarto mascherato con Ischia del governo Conte.

E si continua a consumare suolo proprio mentre gli effetti del cambiamento del clima mostrano quanto sia cambiato il regime delle precipitazioni che possono assumere, come abbiamo visto in Emilia, un carattere “esplosivo” e far cadere in pochissime ore la pioggia di un anno. Sono impressionanti l’accelerazione e la frequenza di flash flood con piene-lampo, nubifragi intensi e violenti concentrati nel tempo e negli spazi. Dai cinque eventi con danni all’anno registrati fino al 1990, siamo passati agli oltre cento in media di questi ultimi anni con un aumento vertiginoso di richieste dalle Regioni di Stati di emergenza.

Ecco perché non è più possibile parlare di eventi imprevedibili, eccezionali. A nessuno è più concesso di ignorare che l’aumento delle vittime e dei danni è direttamente proporzionale anche all’incuria e alle scarse difese in molte aree dissestate e alla nostra specializzazione nell’inseguire sempre le emergenze facendo i notai dei disastri, senza azionare la leva della prevenzione. Ma toccare ferro e cornetti corallo, invocare santi protettori e affidarsi alla buona sorte non ha mani funzionato e non funziona.

Foto Michele Nucci/LaPresse
3 Maggio 2023 2021 Bologna, Italia
cronaca
Nella foto: Problemi e disagi legati al maltempo in Romagna – fiume Sillaro in piena e allagamenti in città a Faenza – FAENZA
Photo Michele Nucci/LaPresse
May 3, 2023 Bologna, Italy
news
In the pic: Problems and inconveniences related to bad weather in Romagna – Sillaro river in flood and flooding in the city of Faenza

L’ennesima lezione dall’Emilia Romagna ci dice che non va perso neanche un minuto per voltar pagina, e che gli impegni solennemente presi anche dal Senato poche settimane fa per istituire una struttura di missione permanente per il contrasto al dissesto idrogeologico e che vada oltre le beghe della politica, non devono finire nel fango, ma produrre una svolta di prevenzione permanente. La grande opera pubblica più urgente dell’Italia è nel fabbisogno per ogni Regione presente nell’unico “Piano di contrasto al dissesto idrogeologico” depositato a Palazzo Chigi nel 2019 da “italiasicura”, la struttura di missione nata dall’idea di Renzo Piano e creata dal Governo Renzi. Contiene tuttora circa 11mila opere e interventi di varia tipologia – briglie, vasche di laminazione, risagomatura di canali, apertura di canali fluviali intombati, difesa della costa, consolidamento di versanti in frana – per un investimento di circa 31 miliardi di euro da realizzare in dieci anni.

Italiasicura in quattro anni di lavoro, con un team di professionisti provenienti da ministeri e dalla protezione civile e con soli due contratti esterni alla pubblica amministrazione, ha dimostrato che un grande paese come il nostro può mettere nella massima sicurezza tantissime aree fragili e in pericolo. Una nuova governance e la nomina di tutti i Presidenti di Regione a “Commissari di Governo per gli interventi di mitigazione del rischio idrogeologico”, la sburocratizzazione e un rapporto continuo con i territori hanno permesso di riaprire molti cantieri bloccati e di aprirne molti altri. Le prime semplificazioni permettevano agli atti dei Presidenti-Commissari con “dichiarazione di pubblica utilità” di sostituire “visti, pareri, autorizzazioni, nulla osta e ogni altro provvedimento abilitativo necessario”.

Ha dimostrato che è possibile arginare l’alluvione burocratica e normativa che vede accavallarsi in materia di lotta al dissesto idrogeologico un sovraccarico di ben 1.300 norme statali e regionali emanati dopo la legge-quadro del 1989, interpretati da un altrettanto abnorme numero di 3.600 enti e soggetti competenti a vario titolo sui territori che non si erano mai parlati né coordinati. Un nuovo modello di intervento definiva con chiarezza compiti e funzioni, recuperava ritardi e l’intera capacità di spesa.

Dal 2014 il governo Renzi ha messo in cantiere in alcune Regioni i più grandi investimenti europei per contrastare le alluvioni in grandi aree urbane, che procedono con i ritmi giusti e ormai sono quasi completati: i circa 500 milioni investiti da italiasicura per otto grandi progetti per difendere Genova, i 120 milioni per le quattro casse di espansione lungo l’Arno e per tutelare la Toscana centrale, 120 milioni per salvare dalle piene del Sevevo Milano. Sono stati 1.445 i cantieri aperti, moltissimi con costi minori, per un totale di 1.4 miliardi investiti. Tutto verificabile.

Per la prima volta, infatti, lo Stato permetteva a qualsiasi cittadino di cliccare sul sito del governo e “visitare” il portale di italiasicura localizzando il suo cantiere geo-referenziato, corredato di dati, stato di avanzamento, e anche di video e “selfie” di operai e tecnici. Trasparenza totale. Le risorse? Con i ministri Delrio e Padoan furono ritagliati 8.4 miliardi di euro per fare l’impresa. Ma il primo governo Conte nel primo consiglio di ministri cancellò la struttura di missione. L’allora ministro grillino dell’ambiente, Sergio Costa, su La Repubblica del 24 luglio 2018 si vantava di averla smantellato poiché era “un elemento di complicazione” e “costava 900 milioni di euro” all’anno cioè come un paio di ministeri, riportando le competenze all’Ambiente. Ma si dimenticarono del dissesto idrogeologico. Quei fondi tuti interi sono ricomparsi nel Pnrr alla voce “Contrasto al dissesto idrogeologico”. Sono sempre fermi lì.