La riunione del gabinetto di sicurezza si è tenuta nel primo pomeriggio, anticipata rispetto all’ora in cui Benjamin Netanyahu avrebbe dovuto riunire i suoi ministri. Un modo per mostrare l’urgenza del tema da trattare, ma anche per evitare possibili scontri in seno alla maggioranza e velocizzare le discussioni. Perché l’accordo sulla tregua in Libano è un passaggio cruciale del conflitto e dello stesso governo a guida Likud. E le perplessità, soprattutto da parte dell’ultradestra, non sono poche. La parte più radicale della maggioranza considerava prematuro un accordo di cessate il fuoco ora che Hezbollah appare molto più debole. Nel nord le autorità locali sostengono che non sia ancora garantita la sicurezza delle città, così da non poter assicurare il ritorno degli sfollati interni. E in molti si chiedono quale sia la libertà di manovra garantita dagli Stati Uniti alle forze armate israeliane per evitare che il Partito di Dio si rafforzi di nuovo e si schieri a sud del fiume Litani. Fiume raggiunto per la prima volta ieri dalla fanteria israeliana e che non rappresenta solo il confine del sud del Libano, ma anche dell’area dove operano i caschi blu di Unifil e che – secondo gli accordi – Hezbollah non dovrebbe più oltrepassare.

Gli attacchi aerei

Al netto dei dubbi, Netanyahu si è però convinto dell’utilità del cessate il fuoco. Su pressing degli Usa, ma anche su consiglio dell’Intelligence e degli stessi militari, che conoscono le insidie del campo di battaglia. E il patto, del resto, era già stato accettato dal Partito di Dio e dal governo libanese, rappresentante di un paese risucchiato in un conflitto non voluto ma di cui Beirut e la popolazione sono state le prime vittime. Ieri nella sola parte meridionale della Capitale sono stati colpiti in due minuti 20 obiettivi di Hezbollah. Attacchi aerei che hanno preso di mira depositi di denaro, filiali dell’Associazione Al-Qard Al-Hassan (quella che il movimento usa per finanziarsi) e comandi dell’Intelligence. Mentre le forze armate dello Stato ebraico hanno colpito ancora nel sud del Libano, dove sono proseguite le battaglie con i miliziani, che ieri hanno di nuovo lanciato una decina di razzi contro il nord di Israele. Fiammate che sono arrivate proprio nel momento delle discussioni in Israele e che sono apparse come regolamenti di conti prima del cessate il fuoco.

5mila militari

Lo stop alle ostilità dovrebbe entrare in vigore da questa mattina e si prevede che duri almeno 60 giorni. Durante la tregua – voluta fortemente dall’amministrazione Biden e a cui hanno lavorato anche gli emissari di Emmanuel Macron – è previsto il contemporaneo ritiro dell’Idf, che tornerebbe nel territorio israeliano, e di Hezbollah, che dovrebbe andare a nord del Litani. L’obiettivo è fare in modo che l’esercito libanese sia l’unica autorità a garantire la sicurezza del sud del paese dei cedri, con un controllo internazionale sul rispetto degli accordi e Unifil a sostenere il lavoro delle forze di Beirut e a monitorare la Blue Line. Secondo il governo libanese, i militari pronti a essere dispiegati nella regione sarebbero 5mila. Ma il problema è capire anche quando e quanto saranno efficienti al punto da essere gli unici garanti della stabilità del sud e di quel confine, visto che Beirut non ha subito solo gli effetti devastanti della guerra in Siria, dell’attuale conflitto, ma anche quelli di una crisi economica senza fine.

Le incognite del Libano

La tregua ora è cosa fatta, quindi. Ma le incognite rimangono. Il Libano deve gestire un sud del paese distrutto e mezzo milione di sfollati. Hezbollah è ferito ma non sconfitto definitivamente. Israele deve garantire un nord che può essere ancora bersaglio dei razzi. Per molti, è un accordo che serve al Partito di Dio (e all’Iran) per rifiatare. Per altri, una parentesi anche per l’Idf, che evita il freddo e le piogge dell’inverno libanese, ma che dovrebbe mantenere una certa libertà di manovra per colpire Hezbollah. Lasciando inevitabilmente una serie di interrogativi: gli stessi sorti dopo la pace del 2006.