Coniugare cooperazione e attività creditizia non è una mission impossible: le banche popolari riescono a farlo – e bene – dal 1864. Perché allora non prendere in considerazione il modello della banca popolare quale via intermedia fra banche cooperative a mutualità prevalente e banche spa? Sono sempre più numerosi e autorevoli gli interventi – l’ultimo sul Sole 24 Ore di due illustri giuristi quali i Professori Francesco Capriglione e Marco Sepe – che danno voce al profondo disagio di alcune Bcc cui la Riforma del 2016 ha imposto di aderire a un gruppo bancario diretto da una holding Spa, rinunciando alla propria autonomia gestionale e alla propria funzione di promozione del localismo economico. Disagio tale da indurre diverse Bcc a valutare addirittura di abbandonare la forma cooperativa e trasformarsi in società per azioni pur di recuperare l’autonomia perduta.

Del resto, prima che la legge 49/2016 cancellasse inopinatamente tale possibilità, erano consentito pacificamente alle Bcc sia la trasformazione in banche popolari sia operazioni di fusione. Con la Riforma, alle Bcc che non intendessero aderire a un gruppo bancario è stato invece impedito di adottare lo status di banca popolare essendo prevista unicamente la possibilità – e solo per le Bcc con un patrimonio netto superiore a 200 milioni di euro – di scorporare l’attività bancaria conferendola ad una banca costituita in Spa. Il mantenimento della possibilità di trasformazione in banca popolare avrebbe invece consentito alle Bcc di rimanere nell’alveo della cooperazione bancaria e di non rinunciare alle proprie caratteristiche di banca del territorio. Non si comprende la ratio di tale divieto, essendo proprio quello in banca popolare cooperativa il “naturale” passaggio di forma giuridica-economica delle Bcc e certo non in Spa, tipo sociale meramente lucrativo, agli antipodi per struttura e per funzione.

Le banche popolari e quelle di credito cooperativo sono due species dell’unico genus: la società cooperativa. Ciò che distingue le prime dalle seconde è il diverso grado di mutualità che nelle prime è ‘non prevalente’ e nelle seconde ‘prevalente’, ma che connota entrambe le categorie. Tra l’altro la distinzione del grado di mutualità si è decisamente affievolita a seguito dell’emanazione delle disposizioni attuative della Banca d’Italia del 2018 che hanno oggettivamente ridotto il grado di mutualità delle Bcc. La dottrina giuridica ed economica ha del resto sempre messo in evidenza come l’esercizio dell’attività creditizia da parte di entrambe le tipologie di banche cooperative sia stato rivolto soprattutto a favorire l’imprenditorialità locale attraverso un modello di intermediazione bancaria tradizionale. Sono proprio le banche cooperative a conoscere meglio e, conseguentemente, sostenere le specificità locali e socio-economiche dei territori di riferimento. L’elemento personale e fiduciario che connota la partecipazione dei soci alla banca fa infatti sì che le banche cooperative siano ineludibile punto di riferimento dei territori e dei distretti industriali nella individuazione delle fonti finanziarie per il supporto della produttività locale.

L’innegabile valore socio economico di un’operatività legata alle zone di insediamento, tipico delle banche cooperative, è stato invece totalmente disatteso dalle Riforme varate nel 2015-2016. Ora il ripristino della possibilità – come era prima della riforma – per le Bcc di rimanere nell’alveo delle banche cooperative, continuando la propria attività in forma di banca popolare, consentirebbe di non disperdere i benefici del localismo insiti nella forma bancaria cooperativa il cui ruolo di mitigazione del rischio sistemico è ampiamente riconosciuto. L’obiettivo della solidità patrimoniale è unanimemente condiviso ma è certamente auspicabile, a vantaggio del tessuto produttivo del Paese, che esso venga perseguito con modalità che preservino le specificità cooperative: esattamente il contrario dell’approccio “one size fits all”.