La ragione
Beppe Attene suona la sveglia al cinema: “Sale in crisi, è tempo di adeguarsi”
Cambiano fruizione, consumo, elaborazione: nell’era delle piattaforme il film ha perso il suo effetto politico-culturale. Partecipato evento ad Anica per la presentazione del libro “Lei non sa chi ero io!”

Beppe Attene ha scritto un nuovo libro. Per chi non conoscesse Attene (male, molto male!) ve lo riassumo io: nato a Cagliari nel 1949, laureato in filosofia e politicamente vicino al Psi, Attene è una figura ben nota nell’ambiente del cinema italiano: ha ricoperto ruoli di spicco come dirigente di Cinecittà Spa, direttore dell’Istituto Luce, produttore, documentarista, regista, distributore, sceneggiatore, saggista e polemista. Il suo saggio “Non sa chi ero io!”, edito da Graphofeel (18 euro), rappresenta il frutto di un percorso tra cinema pensato e cinema realizzato.
La presentazione
Il volume è stato presentato venerdì scorso nella sala cinema di Anica di fronte a un folto pubblico di addetti ai lavori, con Attene al centro della scena, sornione e digressivo, accompagnato sul palco da Riccardo Tozzi, Giampaolo Letta, Mario Lorini, Antonio Medici ed Enrico Menduni: un consesso che non capita tutti i giorni di trovare riunito insieme ha offerto una riflessione articolata, di ampio respiro storico, su ciò che è stato il cinema in Italia. Uno sguardo ben delineato dal sottotitolo del libro: “Il cinema italiano e l’individualizzazione del consumo”. Attenzione: non “individuazione”, ma proprio “individualizzazione”, nel senso di centralità dell’individuo, per richiamare una strategia produttiva, artistica e commerciale sempre più orientata a personalizzare l’esperienza cinematografica.
La ricerca delle caratteristiche
Questo, perché la dimensione sociale e collettiva della fruizione nelle sale si è ridotta, almeno in parte. Si legge che il volume ripercorre «la storia della decima musa dal modello di sistema-cinema imposto dal fascismo, passando per l’età d’oro del cinema italiano nell’Italia democratica, fino alla maturità del medium televisivo e alla moltiplicazione delle forme di consumo contemporanee. Tuttavia, il dibattito – per fortuna vivace e per nulla accademico – si è concentrato soprattutto su questioni attuali, ruotando attorno a una domanda cruciale: cosa deve avere un film, oggi, per attrarre un pubblico sempre più incline a consumare cinema, soprattutto sotto forma di miniserie, sulle piattaforme?
La ragione
«No pubblico, no party», ha scherzato Tozzi, produttore di Cattleya, società che da anni si dedica esclusivamente alle serie, con l’intento di portare nell’universo della cosiddetta “tv selettiva” (quella non generalista) elementi di forte espressività cinematografica. Insomma, la televisione come naturale prosecuzione del cinema con mezzi diversi. In questo senso, Attene ha ragione quando sostiene, ripreso da Tozzi, che «la modernità non è né buona né cattiva: è inevitabile», anche se noi italiani fatichiamo spesso ad adattarci al cambiamento, preferendo indulgere nella nostalgia.
La mannaia sulla testa ci fa lavorare bene
Tra i temi emersi, uno in particolare ha suscitato interesse: il ruolo del sostegno economico pubblico. Che si tratti di fondi di garanzia, tax credit o finanziamenti selettivi, questi strumenti sono considerati indispensabili se vogliamo che il racconto per immagini continui a essere veicolo di un’identità nazionale e culturale. Tozzi ha sintetizzato il tutto con una battuta efficace: «La mannaia sulla testa ci fa lavorare bene», riferendosi alla necessità, per i produttori, di individuare storie capaci di catturare uno spettatore sempre più distratto e abituato al consumo domestico di film e serie. D’altra parte, il successo di Netflix è ampiamente basato su un sistema di raccomandazione personalizzato, fortemente mirato, che rientra perfettamente nel concetto di individualizzazione del consumo.
I concetti
Lorini e Medici hanno affrontato la questione dal punto di vista degli esercenti e dei distributori, mentre Letta, amministratore delegato di Medusa, ha ricordato con un certo pragmatismo – non da tutti accolto con favore – che «non esiste alcun diritto a fare un film».
Quale medicina potrebbe aiutare il cinema malato? Menduni ha ipotizzato che, così come accade per le partite di calcio, fruite sia in tv che negli stadi, si possano trovare nuove forme di consumo cinematografico capaci di superare la pura personalizzazione. Concetti come «ritualità, esperienza collettiva e calendario» potrebbero giocare un ruolo chiave. Difficile dire se sia davvero così, ma Attene, forse con un pizzico di nostalgia per i tempi in cui i partiti influenzavano fortemente il panorama creativo, si chiede: «Il cinema, nella sua componente seriale, è ancora un fronte di battaglia strategico?» Una domanda che rimane aperta.
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