La prolungata incursione della Procura di Trapani sui telefoni di una giornalista non indagata per alcun reato ha sollevato un nugolo di polemiche e innescato un’ispezione ministeriale. Al di là del riflesso corporativo che anima la stampa, come qualunque agglomerato professionale, e delle preoccupazioni più distaccate espresse da autorevoli commentatori (Vladimiro Zagrebelsky,Intercettazioni, un attentato all’informazione”, su La Stampa del 6 aprile), la questione è tutta sul tappeto e non dovrebbe essere ulteriormente ignorata.

Probabilmente è giunto il momento di fare chiarezza sullo statuto del segreto che garantisce e sostiene la libertà di stampa e di fissare limiti ben disegnati per l’attività di indagine che riguardi i giornalisti sotto controllo a causa dell’esercizio della loro attività. Che i giornalisti siano i terminali di notizie di ogni genere è cosa scontata. La funzione imprescindibile della libertà di stampa è talmente ben compresa e ben percepita dalla collettività da non essere oggetto di perplessità o di critiche. Così a nessuno verrebbe in mente di privare il giornalista del suo diritto/dovere di tacere le fonti delle proprie informazioni, a parte gli ostacoli costituzionali e di rango sovranazionale che impedirebbero una tale decisione. La questione si complica quando lo scudo della libertà di stampa si misura con altri valori costituzionalmente rilevanti che esigono una delicata operazione di bilanciamento.

Si è discusso della recente decisione parlamentare di rafforzare, d’intesa con la ministra Cartabia, lo statuto della presunzione d’innocenza o delle prescrizioni riproposte dal Garante per la privacy in materia di riprese e foto di soggetti ammanettati; tutti profili che intingono nel giardino proibito della libertà di informazione e che vedono la necessità di salvaguardare altri interessi, parimenti meritevoli di protezione. Per non parlare del dibattito, non ancora sopito, che ha accompagnato la riforma delle intercettazioni e la pubblicazione delle relative conversazioni.
Mettere ordine in questa selva di diritti e costruire doveri simmetrici di tutela non è operazione facile, ma alla quale non si può più a lungo rinunciare da parte del legislatore. Pena l’affermarsi, anche in questo settore, di una supplenza giudiziaria che conia principi e regole, spesso impossibili da generalizzare e da far operare ad ampio raggio.

Il caso di Trapani sembra abbastanza chiaro: l’intercettazione della giornalista muove dalla pretesa di individuare le fonti delle sue informazioni e di mettere mano sui responsabili di un traffico di immigrati clandestini. Ovviamente nulla vieta a un giornalista di entrare in contatto con l’autore di reati e di raccogliere da costui informazioni. Accade tutti i giorni quando benevole manine, commettendo precisi reati, consegnano carte coperte da segreto istruttorio o divulgano intercettazioni ancora segrete, come sarebbe accaduto da ultimo nell’affaire Procura di Roma. In questi casi, in genere, a nessun viene in mente di metter mano ai tabulati o ai telefoni del fortunato esponente della libera stampa che sia entrato in possesso di atti illeciti. Almeno che l’attività non si sia svolta senza la copertura, l’assenso, la connivenza o anche solo la benevola tolleranza degli inquirenti di turno.

In questa sfortunata evenienza si procede a tutto spiano con sequestri, perquisizioni, acquisizioni di tabulati e quant’altro possa servire a identificare il reprobo divulgatore. Basterebbe censire i casi in cui una tale reazione si scatena (pochini) per stabilire – tutte le altre volte in cui nulla accade – che la fuga di notizie muove dal perimetro di chi il segreto avrebbe dovuto custodirlo e che invece lo ha messo in circolazione per lo meno con negligenza (come recita la legge disciplinare dei magistrati). Il caso di Trapani appare, invece, molto diverso da quanto solitamente accade in tema di notizie di reato e libera stampa. Per cui le cose vanne tenute distinte e occorre evitare, appunto, riflessi corporativi.

Questa volta sembrerebbe che l’intento degli inquirenti fosse quello di “pedinare” telefonicamente la giornalista per individuarne le fonti e acquisire informazioni utili alle indagini. È chiaro che si tratta di una rete a strascico che coinvolge profondamente l’intera catena dei collegamenti informativi e che isola e condiziona in modo pesante l’attività professionale del giornalista. Il rapporto confidenziale con le fonti ne viene ampiamente compromesso e, con esso, risulta eluso il segreto che vincola il giornalista rispetto al propalatore. Questo modo di procedere porta inevitabilmente a selezionare i giornalisti distinguendo tra chi partecipa stabilmente al mefitico triangolo informativo descritto dal dottor Palamara (pm – polizia giudiziaria – giornalista embedded) e chi lavora con fatica sul campo conquistandosi fiducia e informazioni per svolgere il proprio lavoro. Il primo modello regola il “mercato” delle notizie in una posizione privilegiata di cellula che viene attivata in caso di necessità; il secondo prototipo si trova la polizia giudiziaria per casa o in ufficio pronta a sequestrare tutto quanto sia necessario.

L’Ordine dei giornalisti poco dice su questa discriminazione che coinvolge soprattutto i giovani cronisti e le proteste di questi giorni poco risolvono. Le notizie solitamente sono nella disponibilità di chi non dovrebbe divulgarle e se qualcuno le riceve comodamente e qualcun altro deve rischiare per averle è evidente che la libertà di stampa ha declinazioni ingiuste e ondivaghe. Oltre che opache, posto che rischia di finire al servizio di interessi poco trasparenti, quando non illegali come di recente è stato denunciato. L’unica soluzione è quella di impedire che le attività d’indagine – che non possono mancare nel caso di Trapani come non dovrebbero mancare in ogni altro caso quando si tratta di scoprire dei malfattori – si svolgano a 360 gradi compromettendo l’intera rete informativa del giornalista. Nessuna novità, si badi bene. Lo aveva affermato a chiare lettere la Cassazione in una esemplare sentenza riguardante un sequestro operato presso un giornalista e la sua testata.

Ricordavano i giudici di piazza Cavour che vi è «la necessità di preservare il diritto del giornalista a cautelare le proprie fonti, in vista dell’espletamento della funzione informativa, considerata uno dei pilastri fondamentali delle libertà in una società democratica» e che «il giudice può ordinare al giornalista di indicare la fonte delle sue informazioni solo in presenza delle due condizioni: a) che la rivelazione della fonte sia indispensabile per la prova del reato per il quale si procede, prendendo a riferimento fatti specifici in ordine ai quali si sviluppa l’attività di indagine b) che le notizie non possano essere altrimenti accertate». Se il giornalista non può essere costretto a rivelare le fonti se non in questi casi, è evidente che questo privilegio non possa essere aggirato in altro modo, a esempio con perquisizioni o intercettazioni a maglie larghe.

L’«altrimenti accertate» rinvia, certo, anche a questi mezzi di prova, ma nell’assoluto rispetto del principio di continenza e proporzionalità che vorrebbe che si intercetti solo quanto sia immediatamente e direttamente correlato al reato per cui si procede. Questo imporrebbe che l’attività di ascolto fosse costante e che l’operatore di polizia vigilasse attentamente su quanto viene detto, spegnendo l’apparato ogni volta la conversazione sia estranea allo specifico reato per cui le intercettazioni sono state autorizzate. Una fatica e uno spreco di uomini, impegnati 24 ore su 24 si dice. Vero, ma questo è un buon motivo per circoscrivere le intercettazioni solo ai casi in cui siano «assolutamente indispensabili ai fini della prosecuzione delle indagini» (articolo 267 Cpp), evitando di accendere i microfoni in modo indiscriminato. Lo sappiamo, trasandatezze del genere non sono accadute sempre.

Ma questa è un’altra storia (direbbe Moustache il barista filosofo di Irma la dolce). Nell’immediato l’unica precauzione per tutelare la libertà di stampa, e tutti gli altri diritti costituzionalmente compromessi dalle intercettazioni, è quello di imporre un ascolto permanente che impedisca di registrare quanto è inutile o appare tale. Il rimedio dello stralcio o della cancellazione postuma, forse, mitiga il danno, ma non quello recato alla libertà di stampa con le squadernarsi delle fonti.