Ernesto Galli della Loggia, in un suo elegante fondo sul Corriere della sera, descrive un’Europa in cui le classi disagiate, desiderose di protezione, si sono rifugiate in un nazionalismo illiberale e guardano con rimpianto al passato. Le classi agiate e colte, invece, guardano al futuro e rifiutano il nazionalismo e i valori tradizionali. Temo di non essere d’accordo col mio amico Ernesto e cercherò di spiegare perché. Galli della Loggia lascia fuori dalla sua analisi l’Ue e le sue politiche ed è forse quest’omissione che limita la sua analisi. Il XX secolo, nella sua prima metà, è stato caratterizzato dai disastri prodotti dall’abuso della sovranità nazionale. Due guerre mondiali, tre dittature, l’iperinflazione di Weimar e in Ungheria, la Grande Depressione sono i principali fenomeni di disastri prodotti dall’abuso della sovranità nazionale. Essi si sono tradotti anche nel declino dell’Europa. Fino al 1914 il termine civiltà non aveva plurale: c’era la civiltà europea e altri modi di vivere. Le guerre si combattevano in Europa e per l’Europa; l’Europa era il mondo, il resto erano solo colonie europee o ex-colonie europee o Paesi troppo lontani per essere rilevanti. Dopo il 1945, trascorso appena il tempo di una generazione, l’Europa era solo «the most valuable piece of real estate in the world» (la proprietà immobiliare di più grande valore al mondo) come sarcasticamente osservò un americano.

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Da qui l’europeismo, cioè l’idea che solo l’unione politica dei Paesi europei avrebbe potuto garantire la pace e ridare voce all’Europa nel contesto internazionale, dominato dalle due superpotenze. In realtà il declino del Vecchio continente doveva molto anche alla demografia: nel 1914 gli europei erano il 25% degli abitanti del pianeta, oggi non sono neanche il 10%.  Fu in base a queste considerazioni che la generazione degli europei nati fra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento era appassionatamente europeista. Nel 1954 ebbe la sua prima delusione: il Parlamento francese non ratificò il trattato istitutivo della Ced (Comunità europea di difesa), che pure era stato voluto dalla Francia. La conferenza di Messina del 1955, quella di Venezia del 1956 e i Trattati di Roma del 1957, indirizzarono l’europeismo verso l’integrazione economica, essendo l’unione politica prematura, come dimostrava il fallimento della Ced. Agli inizi, quindi, l’Europa parlava italiano: in Italia, infatti, si erano tenute le prime tappe europeistiche, e per iniziativa italiana. A esse si opponevano i comunisti, la destra, i sindacati, la Confindustria, e persino i federalisti. Fu dal centro politico che venne la spinta verso il superamento della sovranità nazionale. Tutto questo è molto importante per il tema trattato da Della Loggia, perché l’Unione europea ha interpretato il suo ruolo come se dovesse uniformare i Paesi membri e ha concretamente operato in questo senso. Basti pensare alle targhe automobilistiche, chissà perché uguali, o al fiscal compact o al Fondo salva-Stati, decisioni che tendono a creare uniformità, non unità. Gli Usa hanno un governo federale da più di due secoli e non hanno queste cose; la loro unità non ne ha bisogno.

La smania di uniformare ha irritato molto tanta gente di tutte le classi e condizioni sociali in molti Paesi: si tratta di quella che Ernesto chiama destra, che non cerca rifugio nel nazionalismo, come lui sostiene, ma vuole difendere la propria identità nazionale. Non sono reazionari passatisti che si scontrano con illuminati progressisti di sinistra che guardano al futuro, sono persone che ritengono le proprie caratteristiche nazionali meritevoli di essere tutelate. Vengono lapidati con l’accusa di populismo e sovranismo, che in realtà non sono affatto peccati mortali, sono l’applicazione della nostra Costituzione che recita: «La sovranità appartiene al popolo». Quanto alle sinistre, mi riesce difficile vederle come liberali e illuminate progressiste, essendo costituite per lo più da orfani del comunismo o, peggio, del cattocomunismo, e niente affatto ispirate al futuro ma nostalgiche del nostro peggiore passato. Voglio essere chiaro: non sto santificando le destre, né scomunicando le sinistre. Non lo meritano. Sto solo evidenziando i limiti dell’analisi di Della Loggia. Credo che quella che Ernesto chiama Destra sia meritevole di una valutazione meno semplificata e di un’attenzione più benevola: è in gioco il nostro futuro politico.

Antonio Martino