Editoriali
Caro Spataro, diciamocelo chiaro: troppi pm si atteggiano a sceriffi

Medaglia alla coerenza al dottor Armando Spataro, che ha svolto per tutta la sua vita di magistrato il ruolo di Pubblico ministero, sfuggendo così alle due tentazioni cui non sanno resistere tanti (troppi) suoi colleghi: quella di scambiare il ruolo di accusatore con quello di giudice e quello di entrare in politica mettendo a frutto la popolarità acquisita con le inchieste giudiziarie. Siamo certi non gli siano mancate le occasioni né per diventare giudice né per diventare politico. Ma ha rinunciato.
Il primo ruolo non è proprio nelle sue corde, per quel che riguarda il secondo, non ne ha mai avuto bisogno, avendo lui sempre interpretato il ruolo del pubblico accusatore nel modo più “politico” possibile. Nei lunghi anni in cui è stato pubblico ministero a Milano, Armando Spataro ha svolto un vero ruolo da “sceriffo” all’americana, pur non essendo lui né eletto né nominato da un ministro, ma teoricamente solo un burocrate planato in magistratura per concorso. Certo, anche lui come tutti i suoi colleghi, ha nuotato nell’acqua della grande anomalia italiana, quella di un ordinamento giudiziario in cui il pm gode di un regime di ampia indipendenza a scapito della responsabilità. Ha goduto del vantaggio di appartenere allo stesso ordine dei giudici e lo rivendica ancora oggi, attraverso la finzione retorica (Il Riformista, 29-10-19) di una querelle tra garantisti e forcaioli, in cui ricorda quel che è ovvio, cioè il dovere di tutti i soggetti processuali di rispettare i diritti individuali di ciascuno. Ma il problema non è quello, e non è neanche un’altra sua finzione retorica, quella di ricordarci di esser stato lui stesso vittima di volta in volta di coloro (che lui cataloga in: colleghi magistrati, politici, pseudo-intellettuali) che lo criticavano attribuendogli patente di uomo di destra se indagava sul terrorismo “rosso” e di esponente di sinistra se troppo blando nel perseguire la violenza islamica.
Il punto vero è un altro, è una questione di regole. Principi che ancora dovrebbero sussistere, nonostante i nostri codici siano da tempo infarciti di legislazione di emergenza emanata da un Parlamento sempre più convinto che sia i pubblici ministeri che i giudici, più che indagare e deliberare debbano “lottare”. Non inquisire e giudicare il cittadino, ma sgominare i fenomeni devianti, si chiamino terrorismo o mafia. Dimenticando che la lotta, se non addirittura la guerra contro le piaghe della società spetta invece proprio a quel potere esecutivo che spesso demanda agli altri poteri dello Stato quel che non sa o non può e non vuole fare. Proprio come fece l’ultimo governo Andreotti nel 1993 dopo gli assassinii di Falcone e Borsellino, quando affidò (con la legge Scotti-Martelli) al Parlamento e alla magistratura il compito della lotta alla mafia. Diverso sarebbe il ruolo del Pubblico ministero se, come è nei sistemi di common law, rispondesse delle sue azioni all’elettorato o in sede politica. È sotto gli occhi di tutti il fatto che certi comportamenti di rappresentanti della pubblica accusa, quelli che chiamiamo “sceriffi”, in un sistema come quello italiano in cui esiste l’obbligatorietà dell’azione penale e un unico corpo, la magistratura, che contiene coloro che accusano e coloro che giudicano, diventano di per sé potere privo di controllo. Potere politico. Vogliamo citarli uno a uno questi comportamenti? Possiamo parlare degli stratagemmi usati per prolungare le indagini, la violazione della competenza territoriale, l’uso distorto della carcerazione preventiva per estorcere confessioni e chiamate in correità, l’uso dei “pentiti”. E molto altro. Sono argomenti che il dottor Spataro conosce molto bene, questi ultimi, visto il suo ruolo nelle indagini e nel processo per l’assassinio del giornalista Walter Tobagi. Negli Stati Uniti i responsabili del delitto poi diventati collaboratori di giustizia Marco Barbone e Marco Morandini forse non avrebbero scontato nemmeno i tre anni di carcere che hanno trascorso in Italia dopo la trattativa, più o meno segreta, stipulata con il pubblico ministero, però i cittadini americani sarebbero stati tranquilli del fatto che il rappresentante della pubblica accusa sarebbe stato responsabile in sede politica e pubblica delle proprie azioni e dell’osservanza delle regole.
Ci domandiamo che cosa sarebbe successo in Usa (ma anche negli altri Paesi europei) se alcuni pm e gip avessero trascinato per sedici anni con una gogna infinita una vicenda giudiziaria come quella subita dall’avvocato Melzi senza risponderne davanti ai cittadini . Con i pm trasformati in incontrollati poliziotti non smentiti quasi mai dal compiacente avallo dei gip se non anche dai collegi giudicanti. Come se ogni arbitraria scelta del pm fosse atto dovuto e insindacabile. E che arroganza! Viene in mente un episodio raccontato nel libro di Agostino Viviani, La degenerazione del processo penale in Italia. Un tribunale del riesame aveva rimesso in libertà un indagato in custodia cautelare, e subito dopo pare che il pm avesse fatto aspre critiche con “aggressione verbale” nei confronti del presidente del collegio giudicante che non aveva obbedito alle sue richieste e in seguito si sia anche rivolto per protestare al presidente del tribunale. Il quale, invece di denunciare la grave intromissione del pm nei confronti dell’organo giudicante, aveva convocato il presidente del Tribunale del riesame per avere spiegazioni. Così, tra “colleghi”. Come è finita? Che quest’ultimo, a disagio perché si sarebbe presto trovato nella stessa situazione in altra indagine e con lo stesso pm, finì per astenersi dal giudicare. Nel libro ci sono i nomi e cognomi.
Due volte il Csm fu investito della questione: la prima dallo stesso Viviani, la seconda dal consigliere Di Federico. Invano.
Sarebbe questa la “cultura della giurisdizione” di cui sarebbe fornito il pm e di cui parla il dottor Spataro?
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