Negli ultimi anni entrare al Beccaria di Milano aveva un che di paradossale. Fuori dal carcere, la grande Milano, la città che corre, che tenta di far viaggiare il Paese alla velocità dell’Europa e del mondo. Milano è la capitale economica (e dei diritti) in continua trasformazione, capace di costruire alla velocità della luce proprio a Bisceglie, intorno al carcere, l’ennesimo complesso residenziale e commerciale. Capita infatti che di fronte all’ingresso blindato del carcere, dove l’anno prima c’erano campi e radure, l’anno dopo si trovino condomini e centri commerciali.

Ma una volta varcato l’ingresso, tutto sembra incredibilmente fermarsi, quasi fosse una città parallela rispetto al fuori. La cosa più evidente è il cantiere, quelle impalcature che pare abbiano agevolato la fuga dei sette giovani detenuti sono lì dal 2008. Immobili o quasi, ormai diventate caratteristica strutturale dell’istituto. La ristrutturazione del carcere doveva durare tre anni. Ne sono passati 15 e siamo ancora lontani dalla “fine lavori”. Quel cantiere infinito, quegli appalti assegnati e annullati e poi ri-assegnati e ri-annullati sono stati un evidente ostacolo che ha trasformato un istituto “modello”, ma sono stati anche un alibi.

Un ostacolo, perché da quando il cantiere è aperto, il carcere è fisicamente “dimezzato”. La struttura è infatti formata da due palazzine gemelle, l’una ospitava il padiglione femminile ed è chiusa da tempo, l’altra, riaperta nel 2017, è oggi l’unica area detentiva agibile. Se e quando saranno conclusi i lavori, il Beccaria potrà ospitare fino a 80 giovani detenuti, diventando il carcere minorile più grande d’Italia, mentre oggi la capienza è di 31 persone. Ma il cantiere compromette anche l’utilizzo delle aree esterne e dei vari laboratori per le attività trattamentali, fondamentali soprattutto quando si tratta di detenzione minorile. Il campo da calcio, da cui è avvenuta l’evasione, proprio a causa del cantiere, può essere utilizzato solo in circostanze eccezionali e la partita di calcio di Natale è, fatalmente, una di queste eccezioni. Per l’“ora d’aria” quotidiana viene invece usato un campetto angusto e spoglio, stretto tra quattro mura e coperto da erba sintetica.

Quel cantiere è però anche un alibi, su cui bisogna ragionare in maniera costruttiva. Il Beccaria rimane infatti il carcere minorile italiano che riceve più risorse da enti pubblici e privati esterni. Milano, tra le città più ricche d’Italia, non sembra dimenticarsi del “suo” carcere.
Un esempio: a prescindere dal colore politico delle giunte comunali o regionali, il numero di educatori pagati dagli enti locali è pari o superiore a quelli designati dal Ministero della giustizia (caso unico in Italia). Per toccare con mano quanto generosa può essere la città di Milano, basta poi fare qualche passo oltre il carcere e visitare la sede della Fondazione don Gino Rigoldi, una struttura nuova e bellissima, dove lo storico cappellano ha trasferito le sue attività e offre laboratori, occasioni di vita, ma anche solo un tetto e un pasto caldo a persone in uscita dal carcere o in misura alternativa.

Anche l’elenco delle attività di formazione e educative al Beccaria è più lungo che altrove, dai panettoni, ai quadri elettrici, passando per il teatro, la ristorazione e il cinema. Quasi tutti “offerti” da enti, fondazioni, associazioni che scelgono di investire lì le proprie risorse. Insomma, delle tante carceri per adulti e per minori osservati da Antigone, il Beccaria non rientra di certo tra quelli “abbandonati” dal territorio. E allora perché proprio a Milano si sono susseguiti una serie di gravi episodi che hanno portato il Beccaria in cima alle agende delle cronache e della politica?

Occorre diffidare da chi ha risposte facili. Non basterà una telecamera in più, una rete più alta o l’invio di nuovi agenti. Così come non bisognerà usare l’episodio del Beccaria come una clava per smantellare la giustizia penale minorile, modello a tutt’oggi studiato in tutto il mondo per la sua capacità di ricorrere il meno possibile alla carcerazione (sono meno di 400 le persone detenute nelle 17 carceri minorili del Paese) affidandosi a misure alternative efficaci e non stigmatizzanti. L’evasione di Natale potrebbe diventare piuttosto l’occasione per trovare soluzioni normative e politiche intorno a tre questioni.

La salute mentale dei giovani detenuti, problema evidente a chiunque varchi la porta del Beccaria così come degli altri 16 carceri minorili italiani. Come si affronta oggi? Esistono strumenti che non siano la sola somministrazione massiccia di psicofarmaci o il confinamento in “zone grigie” del carcere, un po’ celle di isolamento un po’ celle punitive, che al Beccaria, come altrove, esistono? Il tema della salute mentale è legato a quello delle dipendenze e delle droghe. Le politiche di criminalizzazione e di proibizionismo non hanno portato risultati, i servizi sociosanitari di prevenzione sono allo stremo, la circolazione di sostanze tra i giovanissimi è un fatto, anche in carcere. La criminalità minorile cambia. Quale senso ha oggi il carcere nel suo contrasto? E’ uno strumento davvero educativo oppure di pura, inutile, punizione? Quel muro scavalcato da quei sette ragazzi avrà un senso solo se riuscirà a far ragionare su questi nodi aperti della esecuzione penale minorile italiana.

*Ricercatore in Sociologia del diritto, Università di Torino, coordinatore Osservatorio sulle condizioni detentive, associazione Antigone