Il caso del Consigliere regionale piemontese
Caso Burzi, perché i magistrati dovrebbero ripassare la Costituzione
«Non si possono scaricare le falle di un sistema solo sulle spalle della magistratura». Chi parla non è una di quelle toghe firme abituali del Fatto, di quelle che difendono la corporazione a prescindere, ma un magistrato moderato e in genere ragionevole come Fabio Roia, vicepresidente vicario del tribunale di Milano, ex membro del Csm e che fu segretario di una corrente di centro della magistratura, Unicost.
Parla dalle colonne della Stampa, intervistato dallo stesso giornalista, Paolo Colonnello, che il giorno precedente aveva dialogato, con ben altro risultato, con Giuliano Pisapia, avvocato e parlamentare europeo. È un vero peccato che non si possa individuare una sia pur flebile voce di magistrato che, dopo la tragedia che ha visto suicida l’ex consigliere e assessore regionale del Piemonte Angelo Burzi, sappia discostarsi dal formale “doveroso rispetto” per chi non c’è più, per capirne invece le ragioni esplicite e trasparenti messe nero su bianco nelle lettere d’addio. Un’occasione persa. Quasi come se l’intera magistratura avesse delegato una sorta di pensiero unico di casta al procuratore generale di Torino Francesco Saluzzo. Il quale, nelle due pagine di autodifesa dalle critiche per la conduzione della procura di Torino nei diversi gradi di giudizio che hanno visto alla sbarra come imputati una serie di consiglieri regionali piemontesi, aveva ipotizzato il reato di vilipendio dell’intera magistratura a carico di chi avesse osato avanzare certe critiche.
Eppure non c’è bisogno di conoscere i processi, di aver letto le carte, per tentare qualche ragionamento elementare. Basta la conoscenza della Costituzione. Come fa Giuliano Pisapia, che ricorda prima di tutto come già il processo, soprattutto se prolungato negli anni, sia una sofferenza per l’imputato. Cui immediatamente il Presidente Roia replica che anche le vittime e le parti civili soffrono. Il che è più di un’ovvietà, è un modo astuto di mettere le cose a posto nel mondo dei puri e degli impuri. Anche se innocenti secondo la Costituzione. Ma è proprio la legge delle leggi che impone anche la ragionevole durata del processo. Quindi, restare otto o dieci anni, o anche più, in attesa di un verdetto è o no una violazione di legge, oltre che sofferenza atroce, anche quando non ci siano vittime sul selciato?
Il secondo dettato costituzionale evocato da Giuliano Pisapia è che per poter condannare, occorre la ragionevole certezza della colpevolezza. Se un imputato è ritenuto innocente “oltre ogni ragionevole dubbio”, su quali basi un pubblico ministero chiede di ricominciare daccapo, di fare un altro processo? Voglia di vincere a tutti i costi? E ancora: sulla base di quali nuove prove, di quali elementi, di quali testimonianze, in processi come quello che ha riguardato Angelo Burzi, la corte d’appello ha riformato la sentenza di primo grado e ha condannato? Oltre a tutto c’è un dubbio di fondo, in queste vicende di scontrini e rimborsi, e riguarda lo stesso intervento dello strumento penale. «Se si ritiene –è il ragionamento di Pisapia- che certi comportamenti di amministratori pubblici, magari in buona fede, creino dei danni erariali, la sede non è quella penale».
È questo il punto cruciale di un discorso generale, di un momento della storia in cui ci sta precipitando addosso come una valanga un eccesso di giurisdizione, in cui tutto pare diventare reato. Come se i nostri comportamenti, anche i più banali, fossero spiati da qualcuno che cerca i reati, che li costruisce per noi. Per decenni i gruppi regionali, come quelli parlamentari, hanno distribuito i fondi destinati ai rimborsi delle spese per la propria attività politica e di rappresentanza ai singoli esponenti politici con controlli basati sull’autocertificazione. I famosi scontrini. Non c’erano elenchi rigorosi e specifici sulla tipologia di spese rimborsabili. Spettava a ogni capogruppo ammettere o respingere ogni documentazione, e in genere vigeva una certa flessibilità. C’è stato qualcuno che si è allargato? Sì, ma sono stati pochi, e quei pochi hanno riempito i titoloni dei giornali.
Le inchieste penali su “Rimborsopoli” sono iniziate quando la situazione politica lo sollecitava (onestà, onestà), proprio come nel 1992 era scoppiata “Tangentopoli”. Ma trent’anni fa si parlava di mazzette e di finanziamento illecito ai partiti di milioni di lire. Non di scontrini per spese di qualche migliaio di euro per cene elettorali o piccole consulenze. Non è un caso se ci sono state sentenze a macchia di leopardo in tutta Italia. Perché la verità è quella di Pisapia (e ci saremmo aspettati la condivisione di un magistrato come Roia): che cosa c’entrano il codice penale e il peculato? Ci sono stati giudici che hanno condiviso questo dubbio di fondo e lo hanno scritto, mentre assolvevano gli imputati “perché il fatto non sussiste”, come la presidente della prima sezione penale di Torino Silvia Begano Bergey.
Oggi ne possiamo citare un altro – come ha ricordato sul Foglio Carmelo Palma, giornalista ed ex consigliere regionale piemontese-, il gip bolognese Letizio Magliaro. Il quale si rammaricava del fatto che certi comportamenti politici autopromozionali eccessivi non avessero trovato altra forma di sanzione fuori delle aule di giustizia. E così concludeva: «L’amara constatazione che ciò normalmente non accade non può però indurre a una impropria sostituzione della responsabilità penale a quella politica; su ciò di cui il giudice penale non può parlare, occorre tacere». Bologna, sentenza 2191/15. Da incorniciare.
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