La crisi
Caso Emilia Romagna, come il Pci ha perso l’egemonia nella “regione rossa”
Bonaccini che chiede il voto disgiunto alle prossime elezioni in Emilia-Romagna è l’ultimo paradosso che si verifica nella regione “rossa” per antonomasia. Lungo la via Emilia, infatti, era il Partito a raccogliere i consensi. Non in quanto “avanguardia di classe”: del resto le regioni “rosse” non erano quelle del triangolo industriale, ed in esse la conflittualità sindacale è sempre stata piuttosto bassa. Ma neanche in quanto custode dell’ortodossia dottrinaria: tanto che quando nel 1951 Valdo Magnani pretese di discutere dei rapporti fra Stalin e Tito venne rapidamente messo a tacere con l’evocazione infamante del tradimento (e l’insulto di essere “un pidocchio”): e nessuno ne parlò più per decenni. A raccogliere il consenso era invece il Partito in quanto macchina organizzativa: che formava amministratori capaci, coordinava i funzionari delle strutture collaterali, e riduceva la propria politica delle alleanze ad una sorta di patto leonino con i socialisti (risalente agli anni del Fronte popolare ma sopravvissuto fino agli anni 90), senza degnare di uno sguardo una sinistra cattolica che pure – da Dossetti a Prodi, da Andreatta a Pedrazzi e a Gorrieri – non mancava di quarti di nobiltà.
Dal punto di vista teorico la dimensione aclassista che veniva assumendo il partito emiliano era stata giustificata una volta per tutte nel 1946 da Togliatti col famoso discorso su Ceto medio ed Emilia rossa, col quale il Migliore addirittura scavalcava “a destra” i riformisti del primo Novecento, che si erano attardati ad organizzare i braccianti contro i mezzadri. Dal punto di vista pratico, poi, il vertice nazionale del Pci si tutelava rispetto a quella felice anomalia regionale negandole costantemente adeguata rappresentanza al centro: tanto che, per la successione a Berlinguer, né la candidatura di Lama né quella di Zangheri vennero prese nella minima considerazione, e che del resto negli anni precedenti sia a Dozza che a Fanti era toccata la stessa sorte. Alle Botteghe Oscure, infatti, le “regioni rosse” erano considerate pressappoco alla stregua di possedimenti coloniali: preziosi per rifornirsi di materie prime (i voti, nel caso), ma inadatti a fornire classe dirigente o comunque a trasferire modelli. Per cui la “socialdemocrazia realizzata” da Piacenza a Rimini non doveva diffondersi in territori in cui il “socialismo realizzato” era considerato ancora quello dell’Unione sovietica: salvo magari scegliere poi la Bolognina per abiurare.
Questa asimmetria, in realtà, era uno dei tanti elementi che costituivano l’alchimia della prima Repubblica: per cui si poteva tranquillamente governare a Bologna, Firenze e Perugia, e ripararsi dietro la conventio ad excludendum per non essere costretti a governare anche a Roma, dove peraltro un’efficace azione di lobbying garantiva cospicui trasferimenti ai Comuni “rossi”. Ma quando la prima Repubblica cominciò a traballare (e per giunta il Pci cambiava nome) era facile prevedere che lo schema non avrebbe retto. Lo previdero anche Craxi ed Occhetto, i quali alla vigilia delle elezioni regionali del 1990 convennero sull’opportunità di cambiare le regole del gioco. A cominciare da quella specie di protocollo cinese in base al quale, mentre in Regione i comunisti governavano da soli, i presidenti delle provincie spettavano al Psi ed i sindaci dei Comuni capoluogo al Pci: ed ai socialisti erano riservati anche i ruoli apicali in seno agli organismi politico-sindacali della Lega delle cooperative, mentre i comunisti occupavano quelli operativi nelle aziende.
© Riproduzione riservata