Le nuove regole del sindaco
Caso Gualtieri, ma quale illegalità: prima vengono le persone
Il sindaco di Roma, Gualtieri, esiste. La città, sempre più abbandonata a sé stessa, sta sprofondando in un degrado divenuto oltraggioso. Ma il sindaco, con una direttiva molto ideologica, ritiene di poter risolvere, facendolo gravare sulle spalle di alcuni, un problema: quello dell’emergenza abitativa. Ha dato ordine ai propri uffici di dare la residenza agli occupanti abusivi degli appartamenti, purché fragili. In particolare, ha conferito una ampiezza imprevista ad una deroga molto più limitata, contenuta nel decreto Lupi, il quale stabiliva in via generale il divieto di concedere la residenza e di consentire l’allacciamento ai servizi pubblici per gli occupanti abusivi. Le stime sono nel senso che il 95% degli abusivi potrà beneficiare di questa sorta di sanatoria.
Particolarmente avvantaggiati sembrano essere coloro che occupano abusivamente il 10% degli alloggi di edilizia popolare esistenti nella città di Roma. Contro le nuove regole di Gualtieri sono esplose le polemiche: si tratterebbe di una violazione dei diritti dei proprietari degli alloggi occupati abusivamente; di una palese violazione delle regole sulle graduatorie degli aspiranti agli alloggi popolari, nelle cui famiglie vi sarebbero in una percentuale molto alta di soggetti egualmente fragili; di un incentivo alla illegalità. Regole contro regole, dunque: quella di Gualtieri contro altre regole sparse nel sistema legislativo italiano. Il problema, allora, sembra essere quello della legalità. Cosa è legale: il rispetto della norma di Gualtieri o il rispetto delle altre norme contenute nell’ordinamento, che tutelano la proprietà? E ci sarà un giudice che scioglierà questo dilemma? Sono proprio questi quesiti a dare conto dello stato davvero miserevole in cui è ormai precipitata la dimensione pubblica. La forma ha definitivamente soverchiato e sostituito la sostanza e la sovrastruttura è divenuta struttura. Una manifestazione eloquente di questo stato di cose è il trionfo del politicamente corretto, con tutte le ipocrisie che si trascina con sé.
Nell’emergenza abitativa, la questione centrale non è e non può essere il rispetto del diritto di proprietà o la legittimità di un provvedimento che sacrifica il diritto di proprietà di alcuni, ma se sia degno di un paese civile che bambini o donne incinte o vecchi, anche addirittura ultraottantenni, possano vivere per strada, senza un tetto e il calore di un focolare. Si tratta di una questione assolutamente omogenea ad un’altra questione, suscitata in questi ultimi giorni da un fatto di cronaca: se un uomo di oltre novanta anni possa essere tratto in carcere per scontare la sua pena. Sono questioni, alle quali non possono dare risposte né il diritto, con la sua astrattezza, e né i giudici, con la limitatezza degli strumenti che hanno a disposizione. È la politica, in senso alto, l’unica in condizione di dare risposte. Per tornare al tema dell’emergenza abitativa, la domanda diventa: è stato fatto quanto possibile e necessario per rendere l’edilizia popolare adeguata alle esigenze di una città come Roma? Le risorse occorrenti sono state dedicate a risolvere il problema o sono state distratte e sperperate inutilmente? La questione centrale, che l’emergenza abitativa solleva, è, dunque, innanzitutto politica. Certo, il tema della legalità non scompare, ma acquista centralità solo dopo che la politica sia stata capace di dare risposte adeguate. Se vi fosse un numero sufficiente di alloggi popolari non potrebbe esservi nessun dubbio sulla assoluta prevalenza della necessità di far rispettare il diritto di proprietà.
In fondo, il modo con cui è affrontata l’emergenza abitativa, con le regole invece che con l’agire della politica, è emblematico della involuzione subita dall’Italia a partire da Mani Pulite. Lo snodo in cui si trovava il Paese, in quel momento dopo il crollo del muro di Berlino e l’inizio e la successiva accelerazione del processo di globalizzazione, era politico e si è pensato di risolverlo facendo perno sul concetto di legalità e per via giudiziaria. Da quel momento in poi, il valore da perseguire è divenuto quello formale del rispetto delle regole, e la sostanza delle cose, la dimensione umana e sociale del vivere collettivo, si è spenta nel vago e vuoto concetto di legalità. Dimenticando, tra le altre cose, che la legalità è come la storia: è scritta dai vincitori. Il momento, in cui la perdita di riferimento alla dimensione reale dell’umana convivenza si è manifestato in modo plastico è stato quello della Riforma Orlando del 2017, con cui si è avuta l’arroganza di ritenere che i temi dell’inefficienza e della corruzione della amministrazione della cosa pubblica potessero essere risolti attraverso un generale e sproporzionato aumento delle pene. Ma, anche oggi, temi come quelli dell’immigrazione clandestina o dei rave sono affrontati ricercando la soluzione sul piano della legalità e, cioè, delle leggi. Così, con riguardo all’immigrazione si discute su quale sia la legge del mare o la disciplina europea e se i decreti Salvini, peraltro non abrogati anche durante il Governo giallo-rosso, siano da applicare o no.
Così si finge di non vedere che si tratta, da un lato, di tragedie umane incommensurabili (basti pensare ai corpi di quei bambini che perdono la vita in queste migrazioni) e, dall’altro, di fenomeni epocali, di una dimensione tale che ad essi neppure una struttura solida, come quella dell’Impero Romano, è riuscita a resistere. Ancora una volta, dunque, è attribuito al dato formale della legalità un potere di soluzione di problemi, rispetto ai quali esso è del tutto inadeguato. Lo stesso dicasi per i rave: l’aspetto che più colpisce di questi eventi è il numero di giovani, che si riuniscono per trovare nello “sballo” la loro unica ragione di vita. È semplicemente farneticante pensare che problemi sociali, ed esistenziali sul piano individuale, di questa profondità possano essere risolti prevedendo sei anni di carcere, invece che dandosi carico di costruire una scuola più adeguata e coinvolgente e una società, che non espella i più deboli.
Una analisi del provvedimento di Gualtieri e del contesto in cui si colloca, dunque, mostra ancora una volta che la ricerca della giustizia non sta nella legalità, ma nella ricerca equilibrata di quelle soluzioni e di quei compromessi, che solo una politica “alta” è in condizione di ricercare e di raggiungere. La ricerca di una legalità, che venga prima dell’esercizio della politica, non è altro che una scorciatoia, del tutto insufficiente a risolvere i problemi, soprattutto quando si esaurisce in un premio alla forma e in una mortificazione della sostanza. La nuova norma di Gualtieri è accompagnata dalla previsione di un indennizzo per coloro, i cui diritti sono sacrificati, ed è una soluzione temporanea per consentire all’iniziativa politica di dare soluzione al problema abitativo a Roma? O è la previsione di una diversa legalità, alla ricerca di consenso elettorale, che si contrappone alla legalità che deriverebbe dal rispetto di altre norme? In questo secondo caso sarebbe solo un altro tassello della disgregazione di una società, quella italiana, determinata da una ultradecennale assenza della politica.
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