L’Italia parlamentare levata in piedi nell’omaggio alla senatrice Segre rappresentava un Paese con i conti in disordine. Un Paese che lungo tutto il corso repubblicano si è raccontato la storia di leggi razziali imposte durante una specie di incomprensibile ed estranea parentesi della vicenda italiana. Un Paese dove non si enumerano, perché l’esiguità del numero fa vergogna, né tanto meno si celebrano, i dodici professori che rifiutarono di sottoporsi al giuramento di fedeltà al regime e dove una buona quota di padri della patria è fatta di quelli che invece giurarono. Un Paese abituato alla contraffazione, incapace di riconoscere di non essersi conquistato la libertà ma di averla ricevuta da altri: e di averne fatto pessimo governo, lasciando che quelli che gliel’avevano assicurata, e cioè i dirigenti delle democrazie anglosassoni, fossero così spesso rappresentati magari non proprio come nemici ma in ogni caso come i principali responsabili di tanta parte dei mali del mondo.
Nell’omaggio, negli applausi a quella signora trionfava la menzogna di un Paese privo della forza, del coraggio, della dignità di chiedere scusa, di chiederle scusa: e piuttosto si trasfigurava in quello che con una valanga di voti comodamente favorevoli risarciva una sofferenza provocata da qualche immemorabile minoranza reietta, riuscita non si sa come a imporsi lungo un ventennio. Avremmo voluto vedere in quegli applausi la compostezza di un Paese che ringrazia per non essere stato disconosciuto, anziché l’immagine falsa di quello che ha sofferto la violenza di un’infezione tirannica prodotta da poche cellule malate in un corpo complessivamente sano.

E poi questa Commissione. L’avremmo voluta vedere al lavoro, se già ci fosse stata, la Commissione intitolata alla senatrice Segre. Avrebbe potuto occuparsi delle dichiarazioni da sindaco di Valter Veltroni, impegnato a spiegare che dalla Romania arrivano tanti delinquenti. E chissà che cosa avrebbe detto la Commissione, se fosse stata già istituita, del giudiziosissimo Corriere della Sera, sbrigliato a titolare sul controllore che ne canta quattro agli “immigrati” senza biglietto: e a fare imprescindibile precisazione circa il fatto che si trattava di “africani”. O, più indietro, chissà in quali valutazioni si sarebbe esercitata la Commissione a proposito di quel gentiluomo, il professor Asor Rosa, che definiva “razza guerriera e persecutrice” la gente cui appartiene Liliana Segre. Chissà perché vien da immaginare che in tutti quei casi la Commissione, se pure fosse esistita, avrebbe dimostrato scarsa inclinazione all’intervento. E vedremo da qui in avanti. Non dovremo attendere il 25 aprile, coi puntuali insulti alla Brigata Ebraica: in ordine ai quali, ne siamo certi, la Commissione eserciterà con rigore i propri uffici. Ci sarà materia buona molto prima: qualche bel rogo di bandiera israeliana, qualche deliziosa considerazione terzomondista ed ecosolidale sull’origine dell’usura, qualche sana iniziativa di boicottaggio… Tutta roba – accidenti – abbastanza difficile da mettere sul conto esclusivo “delle destre” rappresentate da quelli che l’altro giorno, in Parlamento, non si sono alzati in piedi, ma che senza meno finirà nel centro del mirino inquirente della Commissione. E non che quelli rimasti seduti abbiano fatto bene. Hanno fatto molto male e hanno sbagliato due volte. Hanno sbagliato a non omaggiare la signora Segre, perché nel Paese delle leggi razziali si onora chi ne fu vittima. E hanno sbagliato ad astenersi anziché votare contro, perché con questa Commissione si istituisce un feticcio. Un totem: che non insorge su un patrimonio di civiltà acquisita ma si giustappone alle sagome appese di Piazzale Loreto. E peggio per chi non lo capisce.

Iuri Maria Prado

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