I fratelli Cavallotti, accusati di aver sostenuto e fiancheggiato il sodalizio criminoso del boss Provenzano e ristretti in carcere per oltre due anni e mezzo, hanno dovuto attendere dodici anni per veder riconosciuta la propria innocenza.
Le dichiarazioni dei pentiti che accusavano i Cavallotti sono risultate non credibili, generiche, non riscontrate e smentite.
Gli imprenditori Cavallotti sono stati riconosciuti come vittime. Non complici, ma «costretti a subire la mafia». È stata dimostrata, secondo i giudici della sentenza definitiva, «la soggezione delle imprese dei Cavallotti alla pressione estorsiva».
Si è ribaltato così il percorso argomentativo – tanto semplice quanto sconcertante – seguito dalla Corte di Appello che per prima si era pronunciata sugli stessi fatti: «Anche ammesso che l’imprenditore non potesse lavorare senza quel patto [il pagamento del pizzo, ndr], nessuno lo obbligava a non cambiare mestiere».

Cavallotti, la mafia e la condanna perché “nessuno li obbligava a non cambiare mestiere”

Nessuno lo obbligava a non cambiare mestiere. Queste le parole utilizzate dalla Corte di Palermo per condannare gli imprenditori siciliani per il reato di associazione mafiosa. La colpa dei Cavallotti: non aver saputo frapporsi e reagire a un sistema che neppure lo Stato riesce a combattere.
Da una simile accusa la famiglia siciliana ha potuto affrancarsi solo molti anni dopo, quando la Cassazione ha valutato che alla base di quelle sorprendenti affermazioni vi fossero “gravi lacune logiche e giuridiche” e “un giudizio cumulativo e generalizzato, seguendo il noto detto di fare di tutt’erba un fascio”. E così ha richiesto un nuovo giudizio, quello che ha portato – non senza fatica – alla definiva assoluzione da ogni accusa nel 2010.

Cavallotti assolti ma con i beni confiscati

Nel 2011, però, nonostante l’assoluzione, i fratelli Cavallotti si sono visti definitivamente confiscare l’intero patrimonio, aziendale e personale.
È il processo di prevenzione, che corre su un binario parallelo al procedimento penale. Un sistema volto a prevenire la criminalità, in specie quella organizzata, con misure personali e patrimoniali su chi viene individuato come soggetto socialmente pericoloso e dunque potrebbe commettere reati.
È un procedimento autonomo, cui non interessano le assoluzioni per legittimare l’azione preventiva e dove il sospetto prevale sulla prova.
E allora, poiché i Cavallotti non hanno dimostrato il recesso da un’associazione (di cui mai hanno fatto parte, come accertato dalla sentenza di assoluzione definitiva), sono soggetti pericolosi.
Poiché non si sono pentiti, sono soggetti pericolosi.
Poiché non hanno intrapreso “un responsabile percorso di collaborazione con l’Autorità Giudiziaria”, si sono accreditati come “soggetti pienamente affidabili” nei confronti della mafia.

Ma di cosa si sarebbero dovuti pentire ed in che termini avrebbero dovuto o potuto collaborare, se sono stati assolti da ogni accusa?
Il Tribunale di Prevenzione di Palermo ha disposto la confisca sulla base di quegli indizi ritenuti, nel parallelo processo penale, talmente inconsistenti da portare all’assoluzione. Risuonano, così, ancor più ingiuste le parole usate dai giudici per fondare la condanna (poi ribaltata): potevano cambiare mestiere.
La confisca è stata confermata anche da un incredibile provvedimento della Cassazione dove si legge che, nonostante la sentenza di assoluzione abbia accertato l’assenza di ogni collegamento tra i Cavallotti e la mafia, residuerebbe una non meglio specificata “realtà di fondo”, una “vicinanza dei Cavallotti, risalente agli anni ‘80, ai vertici di Cosa Nostra”.

E così, mentre un giudice penale nel 2010 escludeva ogni collegamento della famiglia con la mafia, se non quale vittima di quest’ultima, per i giudici della prevenzione nel 2015 quella stessa famiglia aveva fatto crescere negli anni la propria realtà imprenditoriale grazie all’appoggio di Cosa Nostra.
Oggi, 2023, anche l’onta del processo di prevenzione è stata finalmente rimossa.
Le accuse infamanti sono cadute con l’annullamento, disposto dalla Suprema Corte, di tutti i provvedimenti di sequestro emessi nei confronti della famiglia Cavallotti.
Nell’attesa di questo riconoscimento, però, la famiglia non ha potuto esercitare l’attività imprenditoriale che la aveva resa leader del settore, tanto da assicurare ai suoi membri l’appellativo di “re del metano”.
Al termine del lungo periodo di amministrazione giudiziaria, ed a seguito della restituzione alla famiglia dei complessi aziendali, i Cavallotti si sono trovati di fronte a realtà ormai inoperose e ad aziende abbandonate o poste in liquidazione. Molti fornitori non sono stati pagati e la maggior parte dei dipendenti ha perso il posto di lavoro.

La famiglia ha chiesto alla Corte Europea per i diritti dell’uomo di pronunciarsi. E per tutta risposta, è la CEDU ad aver chiesto all’Italia di motivare l’esistenza di un sistema che contrasta con
i nostri principi fondamentali: la presunzione di innocenza, la proporzionalità delle sanzioni e la necessarietà delle stesse.
Nel frattempo, restano le macerie di quello che era un tempo un impero. E allora, forse, conveniva davvero cambiare mestiere.

Misure di prevenzione: quell’inspiegabile distanza tra diritto e buon senso (di Giuseppe Belcastro, avvocato)

Quella delle misure di prevenzione, più che una galassia, è una nebulosa, sfumata nei contorni operativi e affidata nei giudizi a costruzioni logiche e giuridiche nient’affatto serrate. Un luogo processualmente pericoloso, in cui il rischio dell’errore, più in agguato che altrove e foriero di conseguenze devastanti, fa tremare le vene ai polsi proprio a chi col malaffare non ha a che spartire.
Il caso di cui ci occupiamo è emblematico. È un caso, quello dei Cavallotti, che porta sul volto molte delle drammatiche contraddizioni del sistema delle misure di prevenzione, ma che ne dimostra plasticamente una in particolare, essenziale, grottesca e incomprensibile al di fuori dell’iperuranio ove a volte si collocano le cose della giustizia: la potenziale impermeabilità del procedimento di prevenzione agli esiti del giudizio di merito, la quale fa sì, per esser chiari, che, assolto dalle accuse di un delitto, un soggetto possa vedersi confiscato, per rarefatte contiguità col malaffare, l’intero patrimonio.

Mettiamola così: c’è una quota della tecnicità del diritto, non lo si può negare, che non è riducibile. Essa ne misura la distanza dalla vita comune e racconta che non tutto ciò che accade in aula è traducibile nella lingua dei non addetti ai lavori. Ma c’è anche un limite di ragionevolezza a quella distanza e quando diventa impossibile spiegare sufficientemente fuori dall’aula ciò che è appena accaduto dentro, ognuno che col diritto abbia a che fare ha il dovere di interrogarsi se quella distanza tra la vicenda giudiziaria e la vita, tra il senso giuridico e il buon senso, non indichi una frattura nel legame imprescindibile tra la regola e il suo scopo.
Ecco, se si deve sintetizzare la vicenda dei Cavallotti, non vi è forse miglior esempio che additare la irredimibile irragionevolezza di essere assolti in un’aula e spogliati d’ogni cosa in quella a fianco.
È un problema che investe la sostanza di un fenomeno, impattando i cardini stessi dell’ordinamento liberale come dimostra il fatto che, nell’estate di quest’anno, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, adita dalla famiglia Cavallotti nel 2016, abbia formulato al Governo italiano, tra pochi e semplici quesiti, quello di valutare in concreto se l’applicazione di una misura di prevenzione nel caso di assoluzione non sia violativa della presunzione di innocenza garantita dalla Convenzione europea, oltre che dalla Costituzione italiana.

Pochi e semplici i quesiti, non così, a prima vista, le risposte del Governo che, sul filo della proroga ottenuta per rispondere (mentre scriviamo ne giunge notizia), ha depositato in zona Cesarini le sue osservazioni compendiandole in un atto di ben 122 pagine.
Sarà doveroso e assai interessante leggere il documento, la cui corposità non consente un commento immediato, mentre già denota una qualche difficoltà argomentativa; e sarà costruttivo prendere atto di come si sia provato a spiegare, a una giurisdizione che parla una lingua piana e diretta, la sottile complessità di una giurisprudenza che, caso forse unico, distingue partecipazione (participation) e appartenenza (membership) all’associazione mafiosa e che anche sulla base di questa sofistica(ta) distinzione ha spogliato degli innocenti di un intero patrimonio, rimproverando loro di non essersi dissociati da ciò a cui quella stessa giurisprudenza aveva altrove accertato non avevano nemmeno mai aderito.

A cura di: M.V. Ambrosone, M. Caiazza, L. Finiti

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