Emanuele Macaluso aveva questo di bello: che era facile contare le sue primavere. Essendo nato infatti il 21 di marzo, ne festeggiavamo il compleanno nel giorno in cui finisce l’inverno. E quest’anno sarebbe stata la centesima primavera, se la morte non se lo fosse portato via tre anni fa. Volevo bene a Emanuele perché era un uomo schietto. Perché non era neanche minimamente settario, e vi posso dire per averli frequentati che i dirigenti del Pci lo erano quasi per obbligo professionale, e lo si vedeva perché essendo spesso colti e intelligenti in privato confessavano i loro veri pensieri. Emanuele li diceva anche in pubblico, e se ne fregava della carriera. Forse per questo ha vissuto così a lungo: era in pace con la coscienza (longevità che ha condiviso con Giorgio Napolitano, suo grande amico e come lui “grande vecchio” del riformismo ex comunista).

Così si fece la fama dell’eretico. Per dire: si era inventato il “milazzismo”, un’alleanza fra comunisti e missini, socialisti e monarchici, per far fuori la Dc dal governo regionale siciliano. E si era inventato il “migliorismo”, termine spregiativo usato dai sedicenti rivoluzionari che non tollerano chi si batte per assicurare al popolo una vita migliore, perché solo una vita perfetta, e cioè liberata dalle catene del capitalismo, merita di essere vissuta, oppure tanto peggio tanto meglio. Forse però il campo in cui Macaluso è riuscito meglio, diventando un numero 1, è stato il giornalismo politico. Era un polemista come pochi. La sua rubrica quotidiana di una manciata di righe sull’Unità, quando lui dirigeva quel giornale e io ero uno dei suoi giovani portaparola, era firmata “em.ma” e ha lasciato il segno per originalità, salacità e brevità. Al punto che, una volta fondato il Riformista, pensai che quello fosse proprio il posto giusto per ridargli un corsivo quotidiano. E lui, credo, ne fu felice. Di certo si applicò con rigore e passione a quel compito anche abbastanza gravoso per un uomo in età già avanzata (seppure facesse ancora a piedi ogni mattina la strada tra il Testaccio dove abitava e piazza Barberini dove lavoravamo).

Andavamo d’accordo (quasi) su tutto. C’era soltanto un punto sul quale si incazzava, ogni volta che lo contraddicevo: il futuro del socialismo europeo, che a lui sembrava roseo e a me no. Aveva elaborato il lutto della fine del Pci scegliendo senza esitazioni il campo delle socialdemocrazie. E rimproverava prima al Pds, poi ai Ds, poi al Pd, di essere nati sulla base di un’abiura implicita del socialismo (quei partiti ne avevano addirittura rifiutato il nome, preferendo definirsi genericamente “democratici”). Pensava che il Pd fosse un pastrocchio senz’anima e senza idee, destinato al fallimento. Lo pensava anche quando aveva più del 30% dei voti. E lo pensava, e me lo disse, quando io decisi di candidarmi al Senato nel 2006 con l’obiettivo di accelerarne il parto. Era convinto che bastasse il socialismo, e che non fosse affatto il “cane morto” che io dicevo fosse. Sul primo punto ha avuto ragione lui: il progetto del Pd è fallito, ciò che ne resta è altra (e poca) cosa. Sul secondo punto ho ancora i miei dubbi sul fatto che quell’idea ottocentesca che fu il socialismo possa essere ancora nel Duemila la forma vincente dell’antica battaglia per l’emancipazione dei più deboli e degli sfruttati (tra i quali non a caso, da tempo, la destra prende più voti della sinistra).

In ogni caso, c’è un tratto caratteristico del Riformista che porta tuttora la sua impronta: il garantismo. Di suo non aveva buoni ricordi della magistratura: da giovane era stato arrestato e tenuto per settimane in una cella per adulterio, perché viveva con una donna sposata che amava e che gli avrebbe dato due figli (ai suoi tempi era un reato punibile con due anni di detenzione; fu “processato” anche dal Pci). Criticò duramente, contro il parere del suo partito, l’inchiesta su Tortora, che si sarebbe rivelata un vergognoso bluff, fondato sul falso pentitismo. Difese Leonardo Sciascia, reo di aver scritto un articolo sul Corriere titolato “I professionisti dell’antimafia”, dagli attacchi del movimento palermitano antimafia. Scrisse sull’Unità che la mafia si sarebbe potuta battere solo con la legge, il garantismo e la democrazia. Capì i rischi del complesso mediatico – giudiziario, dei processi politici, delle procure militanti prima di chiunque altro a sinistra (con l’eccezione di Gerardo Chiaromonte, un altro “grande” forse un po’ dimenticato). Per questo oggi gli auguriamo, alla maniera de meridionali: per cent’anni.

Antonio Polito

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