Il d.d.l. del ministro Bonafede, di delega al Governo per l’efficienza del processo penale, include, nella selva di innovazioni «rivitalizzanti», una disposizione volta a «garantire l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale», attraverso l’individuazione di «criteri di priorità trasparenti e predeterminati, da indicare nei progetti organizzativi della procura della repubblica, al fine di selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre».

Non si tratta di una novità assoluta: giace in Senato un d.d.l. costituzionale diretto a individuare, per l’appunto, «priorità di esercizio dell’azione penale». Il retroterra di queste recenti iniziative è costituito da una serie, piuttosto cospicua, di provvedimenti di vario genere e di vario livello (dalla circolare Maddalena del 2007 sino alla delibera dell’11 maggio 2016 ed alla circolare del 16 novembre 2017, entrambe del Csm) con i quali si suggerisce, si autorizza o si incentiva l’adozione di criteri di priorità nella trattazione, da parte delle procure, dei procedimenti penali.

Si è dunque preso atto, a livello politico, che l’esercizio obbligatorio dell’azione penale, inteso secondo l’automatismo apparentemente imposto dall’art. 112 Cost. non è compatibile con il numero dei procedimenti che giorno dopo giorno si rovesciano come un’alluvione sui tavoli dei procuratori, che, per quanto si sforzino di procurare, debbono prima o poi fare i conti con il numero dei magistrati disponibili, della polizia giudiziaria e del personale ausiliario e con le capacità operative dell’organizzazione giudiziaria. Tutto non si può perseguire. Si tratta solo in parte di una patologia, determinata da deficienze strutturali e funzionali (carenze di personale inefficienza organizzativa e quant’altro). La patologia aggrava certo la situazione, ma non la determina.

La necessità di stabilire su quali procedimenti concentrare l’attenzione e le energie disponibili e quali lasciare declinare verso l’estinzione per prescrizione (i cui termini – come è noto – maturano in larghissima parte nel corso delle indagini preliminari) è comune, regolare, risalente: espressione di una fisiologia prima che di una patologia. Nessun ordinamento può davvero soddisfare la pretesa punitiva che in linea di principio avanza e prospetta attraverso l’apparato delle norme penali (e punitive in generale). Data l’entità smisurata delle risorse necessarie per raggiungere un simile obiettivo non sopravvivrebbe a se stesso. Di uno scolmatore si è sempre avvertita la pressante, ineludibile necessità, e ad un qualche espediente si è in effetti sempre fatto ricorso.

Un tempo lo si predisponeva appositamente ogni qual volta il livello di guardia stava per essere raggiunto. Si tratta ovviamente delle amnistie che, in età repubblicana, hanno assunto una ricorrenza più o meno quinquennale (ma che in epoca fascista si succedevano ad anni alterni: era il costo che bisognava sopportare in cambio di una ferocia selettivamente esercitata). La sostanziale abrogazione dell’istituto, con la riforma giacobina dell’art. 79 Cost., nel 1992, ha imposto la ricerca di soluzioni alternative. Il fido smaltitore sostituto si è profilato immediatamente all’orizzonte: la prescrizione, nuovo destino dei procedimenti «non prioritari» o, comunque, inciampati lungo il percorso, lento e faticoso.

Di recente una nuova ventata giacobina ha travolto anche la prescrizione, accusata di fare un lavoro talvolta “sporco”, senza considerare che si trattava pur sempre di un lavoro necessario. Ora, dopo la sentenza di primo grado, si dischiudono per il processo le distese dell’eternità; il prossimo “smaltitore sostituto” sarà quindi la morte del reo. Per sanificare le indagini preliminari, ed impedire che si trasformino in un focolaio di prescrizione prima del salvifico intervento della sentenza di primo grado, il d.d.l. in discussione introduce un meccanismo di tagliole temporali delle varie fasi, presidiate da sanzioni disciplinari: per la corsa del cavallo, si profila la frusta, o, meglio, il frustino. Ma il problema giace invariato. La corsa non può coinvolgere tutti i procedimenti che si presentano al via, perché la pista resta comunque troppo stretta.

Sia chiaro: i “rimedi” selettivi del passato non rappresentavano certo una soluzione soddisfacente. Erano un espediente, talora incongruo, talora squallido, talora iniquo, per arginare la marea montante dei reati da perseguire. Ma non c’era di meglio. L’azione penale è solennemente, sacrosantamente obbligatoria, per tutto e per tutti? Per rendere omaggio a questa improbabile «virtù» serviva una dose corrispondente di ipocrisia, fornita per l’appunto dall’amnistia prima e dalla prescrizione poi: trasformati in quel che forse non avrebbero dovuto essere, ma che, nella dura necessità, non potevano non essere.

Il d.d.l. ha questo di buono: riconosce che occorre disciplinare, in modo da smistare secondo criteri d’ordine. Ma il buono si arresta al punto stesso di questo riconoscimento, perché nella direzione sbagliata già volge il passo successivo, verso un ordine di «priorità» nella trattazione dei procedimenti elaborato dal procuratore della Repubblica interloquendo «con il procuratore generale» e «con il presidente del tribunale», e tenendo conto «della specifica realtà criminale e territoriale, delle risorse tecnologiche, umane e finanziarie disponibili e delle indicazioni condivise nella conferenza distrettuale dei dirigenti degli uffici requirenti e giudicanti». Si tratta di criteri a dir poco sconcertanti; ma prima di tutto è assurda l’idea cui dovrebbero dar corpo, e cioè «selezionare le notizie di reato con precedenza rispetto alle altre». Le domande che una simile prospettiva regolatoria suscita è: ma, alla fine, li trattiamo davvero tutti, questi procedimenti; chi prima, chi dopo, ma tutti? In realtà, un esito simile non si può nemmeno supporre. Le priorità non moltiplicano i magistrati, non aumentano i mezzi, non incrementano le risorse.

Il criterio di priorità ha senso solo in una dimensione statica: mille, e non più di mille, processi da trattare, e tutti lo saranno, secondo un certo ordine. Ma se la dimensione è dinamica, è ovvio che a spingere all’indietro i procedimenti “secondari” interverranno sempre nuovi procedimenti “prioritari”, mentre i nuovi “secondari” s’aggiungeranno ai precedenti. E così via, in un incessante retrocessione.
La trattazione «prioritaria» è quindi solo una parafrasi ipocrita dell’invio, al macero della prescrizione, dei procedimenti eccedenti le risorse disponibili. Si tratta in pratica di una forma surrettizia di disciplina della causa estintiva nella fase delle indagini preliminari. Senonché anche i procedimenti posposti saranno ovviamente iscritti nel registro delle notizie di reato; anche per essi, ad un certo punto, scatterà la tagliola della durata di fase, che finirà col risultare inesorabilmente superata. Che ne sarà del pm procedente? Il piano organizzativo costituirà, con ogni probabilità, la base scriminante della violazione disciplinare determinata dal mancato rispetto dei termini. Ma potrà funzionare sempre? C’è da dubitarne, soprattutto se alla fine maturassero i termini di prescrizione.

Un Candide giudiziario potrebbe tuttavia, alla fin fine, rallegrarsi: in fondo, invece di affidare la prescrizione a decisioni imperscrutabili del singolo magistrato chiamato a scegliere tra le pile dei fascicoli, ne avremmo una disciplina palliata, ma pur sempre una disciplina. Qui casca però anche l’ultimo asino. Si tratterebbe, infatti, di una disciplina orripilante in ragione del contenuto dei criteri formulati. Stabilire in astratto quali debbano essere i procedimenti prioritari finisce comunque con l’implicare scelte di politica criminale che solo il legislatore può definire. Se ci si attesta poi una sorta di «tipologia» locale, come sembra implicare il riferimento alla «specifica realtà criminale e territoriale», si giunge facilmente all’assurdo di trascurare i fenomeni emergenti, spesso i più pericolosi. Se in un circondario non c’è mafia, i reati che ne suggeriscono una prima presenza non beneficerebbero della priorità. Viceversa in un circondario denso di furti di biciclette (ce n’è almeno uno), occorrerebbe forse dedicarsi col piglio severo a questo reato.

In realtà ogni reato può, in circostanze date e secondo criteri di apprezzamento specifico, esigere una trattazione prioritaria. L’appropriazione indebita non è, notoriamente, al vertice della priorità delle procure; ma se coinvolge ad esempio una comunità produttiva, messa in ginocchio dalle malversazioni di un commercialista infedele, può esigere un’attenzione particolarmente sollecita. E gli esempi potrebbero moltiplicarsi all’infinito. Del tutto implausibili risultano anche i criteri riferiti alle «risorse tecnologiche, umane e finanziarie disponibili». Che significa? Si dovrebbe ritenere che se in un distretto mancano i mezzi per accertare un disastro ambientale, è il caso di posporre la priorità di questo reato; o che se mancano investigatori attrezzati in materia finanziaria, è preferibile sorvolare? Sarebbe più semplice stabilire che le procure povere e sguarnite debbano limitarsi a far volare gli stracci. Una follia.

Bisogna dunque concludere che ci si trova di fronte ad una strada senza sbocco? Non è affatto così. Basta tornare indietro e imboccare la via maestra, quella europea, costituita dal riconoscimento che l’esercizio dell’azione penale deve uniformarsi a congrui e verificabili canoni di discrezionalità. Un vasto programma che bisogna acconciarsi a realizzare. Diversamente, finiremo sempre in un sentiero nel bosco che, interrompendosi, svia.