Il tempo presente è quel che è. Manca qualsiasi afflato politico culturale che consenta di immaginare serie riforme per la effettività delle garanzie del giusto processo. Del resto, gli oltre mille interventi che si sono succeduti dal 1988 – anno di svolta per l’adozione del codice accusatorio – al netto della legge n. 63/2001 di attuazione dei principi costituzionali del giusto processo e del tentativo riformatore del 2006 (la cd. Legge Pecorella), sono sempre stati contrassegnati da logica emergenziale e volti ad un efficientismo del quale hanno sempre fatto le spese i diritti della difesa. È con questa consapevolezza che noi dell’Unione delle Camere Penali Italiane ci siamo accostati alle consultazioni volute dal Ministro Bonafede sulla riforma del processo penale.

Un’era glaciale fa, dunque, con il Governo Conte I, avevamo individuato proposte comuni con la Magistratura associata, per alcuni essenziali interventi in grado di incidere sui tempi morti del procedimento e così contribuire all’effettiva attuazione alla garanzia costituzionale della ragionevole durata del processo: riduzione del numero dei processi a dibattimento attraverso l’innalzamento della soglia di pena per il patteggiamento, ampio spazio all’iniziativa della difesa nell’abbreviato condizionato, valutazione sostanziale delle fonti di prova in sede di udienza preliminare, una incisiva depenalizzazione. Proposte ragionevoli che dovevano accompagnarsi con il rafforzamento delle regole di realizzazione del contraddittorio al dibattimento. Avevamo poi da soli insistito nel proporre sanzioni processuali finalizzate a garantire la certezza del tempo delle indagini e il ripristino di una seria disciplina della prescrizione, istituto di garanzia e di civiltà giuridica che gli allora neofiti giustizialisti avevano rimosso dal nostro ordinamento, abolendola dopo il primo grado di giudizio.

È noto come, nonostante gli impegni assunti dalle forze parlamentari chiamate a comporre la parzialmente diversa maggioranza di governo, l’Esecutivo abbia proposto un disegno di legge di riforma del processo che ha ignorato gli approdi del tavolo di consultazione, incentrato su di una farraginosa responsabilità disciplinare del Pubblico Ministero a fronte dell’eventuale sforamento del tempo delle indagini, di nessuna utilità per il malcapitato cittadino sottoposto a processo. È poi previsto che i criteri di priorità per la trattazione delle cause penali siano affidati all’autorità giudiziaria, così chiamata a svolgere scelte di politica criminale che debbono invece appartenere al potere legislativo. Timidissimi gli interventi sui riti speciali, concepiti in modo tale da non incidere sul numero dei processi. Già che c’erano, hanno previsto anche l’estensione della regola per la quale – pure mutando il Giudice – ordinariamente non si procede a rinnovare l’acquisizione della prova e ridotto la collegialità in appello.

Ieri, in sede di audizione dinanzi alla Commissione Giustizia della Camera dei deputati, l’Unione ha illustrato le proprie critiche, e ha avanzato le proprie proposte, le une e le altre qui semplicemente tratteggiate. Ma soprattutto ha rivolto un appello ai parlamentari giuristi: voi che siete avvocati, magistrati, accademici impedite che il già scassato processo accusatorio vada definitivamente al macero.  Non è in gioco semplicemente questo o quell’equilibrio parlamentare. Si tratta per davvero di non rendere ancor più buio il nostro tempo.