La Commissione Giustizia della Camera sta procedendo all’esame del disegno di legge del ministro Bonafede che contiene la «Delega al Governo per l’efficienza del processo penale». Un disegno tutto sommato ambizioso che punta, anche, a mitigare gli effetti distorsivi che si produrranno inevitabilmente non appena andrà a pieno regime la nuova disciplina della prescrizione del reato, entrata in vigore il primo gennaio scorso. Inutile discutere della parte del testo che descrive il nuovo regime delle notificazioni degli atti processuali.

Abbracciata senza remore ed entusiasticamente la tesi che a rallentare le indagini e i processi siano le impicciose comunicazioni da fare agli imputati e ai difensori per far sapere loro cosa sta accadendo sulle loro teste, si vuole intraprendere la strada salvifica delle notifiche telematiche. Qualcuno giura che servirà. Altri giurano che, se si abbandonassero mistificazioni mediatiche e ingenue semplificazioni, ci si accorgerebbe che il deposito telematico degli atti nel processo civile è in piedi da anni e non ha portato alcun serio beneficio all’efficienza della giustizia civile. Se le pendenze scendono un po’ non è perché gli atti processuali circolano via mail, ma perché molti cittadini rinunciano a far valere le proprie ragioni in un’aula di giustizia. Il tutto in un Paese in cui i torti civili (dai danni alla salute ai fallimenti, dai licenziamenti alle locazioni e via seguitando) producono danni molto più gravi dei torti penali e segnano la vera cifra dell’inaffidabilità dei rapporti economici e della precarietà legale della nazione.

L’altra opzione del disegno di legge è quella di favorire la deflazione penale ampliando in modo considerevole le ipotesi di patteggiamento (sino a 8 anni) e di giudizio abbreviato. È noto si tratti di strumenti che, nella trama originaria del codice del 1988, avrebbero dovuto evitare quel che poi è successo per qualche decennio: ossia che praticamente quasi tutto finisse a dibattimento una volta che il pubblico ministero ha esercitato l’azione penale. La deflazione per riti alternativi ha funzionato male per molto tempo perché troppo marginale e troppo poco allettante per l’imputato. Poi, quando le maglie sono state allargate, ossia a partire dal 1999, è subentrato un atteggiamento ancora più pernicioso per il buon funzionamento di questi strumenti. Man mano che le indagini hanno ceduto il passo al duopolio costituito dalle dichiarazioni dei pentiti, prima, e dalle intercettazioni, poi, i difensori hanno nutrito un sentimento di sempre maggiore sfiducia circa l’affidabilità delle attività del pubblico ministero e della polizia giudiziaria.

La gestione dei pentiti e l’incerta completezza e corrispondenza delle intercettazioni trascritte ai contenuti effettivi delle conversazioni, sono divenuti, tante volte, il terreno friabile in cui è affondata la possibilità di un’intesa collaborativa tra accusa e difesa. Affidarsi (con i riti alternativi) ai risultati delle attività investigative comporta un fidarsi delle stesse. Se questa relazione fiduciaria si incrina, il sistema sprofonda in una palude in cui il pachiderma investigativo viene sottoposto a una minuziosa, capillare e sospettosa verifica. Non è questa la sede per discuterne, ma tutti i più recenti strappi che si sono imposti in giurisprudenza sul tema del contraddittorio dibattimentale non sono altro che il segnale di questa profonda incomprensione delle ragioni che colorano, talvolta, come ostruzionistico l’atteggiamento delle difese. Le Alte Corti hanno reagito con una certa durezza a comportamenti delle difese che, distillati nell’alambicco del diritto, sembrano in effetti contrari ai principi di lealtà e di ragionevole durata del processo, ma che una volta ricondotti nella loro sede di incubazione non sono altro che la reazione a opacità, forzature, lacune di un’attività investigativa che troppe volte, riversata nel dibattimento, incespica, annaspa, si scolorisce, quando non inquieta.

Non è il caso di menzionare specificare indagini o singoli episodi in cui pentiti e intercettazioni, giunti al vaglio del dibattimento, hanno mostrato incrinature, vuoti, se non manipolazioni, benevolmente o maldestramente trascurate. In fondo, gran parte della difesa dei magistrati coinvolti nell’affaire Palamara si fonda proprio sulla contestazione delle legittimità e, finanche, della liceità delle intercettazioni svolte, con giudizi severi sulla completezza dell’attività di polizia giudiziaria. Ossia la durissima contesa si svolge esattamente su quel terreno che, oggi, impedisce agli imputati (salvo che siano beccati col classico dito nella marmellata) di farsi giudicare sulla scorta delle attività del pubblico ministero. Snodo fondamentale della questione e che riguarda, soprattutto, i processi per reati che già prima della riforma mai si sarebbero estinti per prescrizione.

Come guadagnare o riguadagnare quella fiducia e quell’affidamento sui risultati delle indagini preliminari è il vero punto su cui si gioca il tema dell’efficienza e della celerità del processo penale. È un tema che, a macchia di leopardo, traspare nella lunga relazione che accompagna il disegno di legge Bonafede, ma che non può che essere affrontato riposizionando il pubblico ministero in un ruolo di responsabile e garante non della legittimità delle indagini (cosa che non gli compete), ma della regolarità e trasparenza delle attività investigative. Subito dopo Tangentopoli si pretese che gli interrogatori degli arrestati fossero registrati e si fece divieto ai pm, a caccia di confessioni, di interrogarli prima di un giudice. Dopo 25 anni occorre costruire una nuova architettura che rassicuri gli imputati che possono interamente fidarsi delle acquisizioni dell’accusa e farne con serenità la base, se giusta, della loro condanna. Non mancano gli ottimi pm da cui partire.