L’espressione “finire al fresco” significa andare in prigione e “al fresco”, da qualche settimana, lo sono davvero i detenuti e il personale penitenziario di alcune carceri del Nord Italia, che si trovano a vivere e lavorare in ambienti non riscaldati con 12 dodici gradi per la rottura dell’impianto di riscaldamento. Si potrebbe obiettare che situazioni analoghe si verificano anche negli edifici scolastici, ma non si è mai detto “finire al fresco” per dire andare a scuola. Se in passato tali condizioni costituivano la norma, oggi configurano uno stato di sofferenza inaccettabile con discredito dell’istituzione penitenziaria. Nel 2013 la Corte europea dei diritti umani, con la sentenza Torreggiani, ha condannato l’Italia per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani (Cedu).

Il caso riguarda trattamenti inumani o degradanti subiti dai ricorrenti, in celle triple e con meno di quattro metri quadrati a testa a disposizione. La grave mancanza di spazio sperimentata dai ricorrenti , costitutiva di per sé un trattamento contrario alla Convenzione; la mancanza di acqua calda per lunghi periodi, nonché di illuminazione e di ventilazione insufficienti nelle celle, hanno causato ulteriore sofferenza, benché non abbiano costituito di per sé un trattamento inumano e degradante. Questo quadro comprende la totalità degli edifici carcerari da Nord a Sud e le carceri campane non fanno eccezione.

Le prigioni di Poggioreale, Santa Maria Capua Vetere, Ariano Irpino e Secondigliano sono accumunate tra loro e con la stragrande maggioranza dei restanti penitenziari italiani dallo stato di degrado strutturale e precarietà in cui versano, causa la scarsa manutenzione degli edifici derivante dalla insufficienza delle risorse economiche stanziate a questo scopo nel corso dei decenni. Questo stato di degrado e precarietà, che riguarda tanto gli edifici antichi quanto quelli più recenti, è rappresentato da coperture dissestate che pregiudicano la funzionalità di intere sezioni detentive, da impianti tecnologici rotti e non tempestivamente riparati, dallo stato di strutture portanti al limite del collasso, da impianti igienico sanitari fatiscenti, da servizi igienici privi di infissi, da carenze impiantistiche e così via.

Emblematico il caso del carcere di Santa Maria Capua Vetere, realizzato 15 anni fa senza prevedere la condotta dell’acqua potabile con conseguente necessità di approvvigionamento attraverso autobotti e scorte di acqua minerale. Non sono bastati gli sforzi degli ultimi governi che hanno messo a disposizione più risorse per le manutenzione degli istituti (fino a 40mila euro annui): a fronte di un patrimonio immobiliare penitenziario del valore stimato di 50 milioni di euro, per la sua manutenzione occorrerebbero 600mila euro l’anno.

Vero è che, nel nostro Paese, sono le opere pubbliche nel loro complesso a soffrire di questi mali. Nel carcere questo stato di cose acquista una particolare rilevanza, per il fatto che lì si violano i principi costituzionali della pena oltre che le raccomandazioni e le norme internazionali in materia di trattamento penitenziario. La condizione di degrado materiale degli istituti non solo pregiudica la qualità delle condizioni detentive e lavorative, ma espone l’Italia al rischio di sanzioni europee e al discredito internazionale, come peraltro già successo, minando alla base quegli stessi principi e quelle stesse norme.

Il presidente emerito della Repubblica, Giorgio Napolitano, a seguito della citata sentenza Torreggiani, nel 2013 sottopose all’attenzione del Parlamento l’inderogabile necessità di porre fine, senza indugio, a uno stato di cose che ci rende tutti corresponsabili delle violazioni contestate all’Italia dalla Corte di Strasburgo: esse si configurano – non possiamo ignorarlo – come inammissibile allontanamento dai principi e dall’ordinamento su cui si fonda quell’integrazione europea cui il nostro Paese ha legato i suoi destini. Parole che scaturivano anche dalla presa d’atto della «miseria delle nostre carceri» derivante dallo stato di degrado delle strutture penitenziarie in uso e dalle condizioni del sovraffollamento che andavano a pregiudicare, tra l’altro, la piena attuazione delle finalità costituzionali ed ordinamentali della pena.

Rivolto al Parlamento, Giorgio Napolitano fece riferimento anche alle recenti azioni messe in atto per incrementare la ricettività carceraria (il Piano Carceri, per esempio), a suo dire certamente apprezzabili ma, in relazione alla “tempistica” prevista per l’incremento complessivo, insufficienti rispetto all’obiettivo di ottemperare tempestivamente e in modo completo alla sentenza della Corte di Strasburgo. Il Piano Carceri si rivelò un fallimento perché non realizzò gli obiettivi prefissati. E nemmeno furono avviati, in maniera risolutiva, gli adeguamenti di natura edilizia negli istituti come indicati dalla Commissione appositamente costituita presso l’Ufficio di gabinetto del ministro della Giustizia nel 2013. Oggi, dopo oltre sei anni dal tramonto prematuro del Piano Carceri e dal documento finale della commissione ministeriale citata, i problemi permangono: carceri per lo più sovraffollate, bisognose di manutenzioni urgenti, progetti di nuove edificazioni che non decollano, responsabili politici del Ministero della Giustizia che prefigurano scenari temporali irreali per le realizzazioni edificatorie. A questo riguardo restano emblematici i casi del nuovo carcere di Bolzano, la cui edificazione è al palo da anni, e del nuovo carcere di San Vito al Tagliamento, dove i lavori affidati nel 2016 non sono ancora partiti.

In sintesi, le cause dei tempi biblici che caratterizzano la realizzazione di nuove carceri nel nostro Paese vanno ricercate nel sistema farraginoso e burocratizzato che appartiene indistintamente alla progettazione e alla realizzazione delle opere pubbliche, inclusi gli istituti penitenziari. Come si è visto, in occasione della ricostruzione del ponte di Genova, le norme ordinarie non consentono di realizzare opere pubbliche nei tempi fisiologici del costruire; solo andando in deroga alla normativa corrente questo è possibile. La carenza di risorse economiche è riconducibile allo stato deficitario che complessivamente ci caratterizza. Solo un’adeguata riforma strutturale della cosa pubblica – e conseguentemente anche delle modalità di appalto e realizzazione delle carceri – potrebbe far intravedere scenari positivi. Sarà il ventilato Recovery Fund a fornirci risorse per evitare alla persone di “finire al fresco”?