Il carcere è il luogo più affollato d’Italia e una cella di prigione può essere lo spazio più congestionato e patogeno dell’intero sistema penitenziario: per chiunque vi si trovi, detenuto o membro del personale amministrativo e di polizia. Il contagio all’interno degli istituti di pena riproduce in maniera gravemente accentuata la crescita del Covid-19 registrata nell’intera popolazione: 874 i contagiati tra i detenuti e 1042 tra gli operatori. Da martedì 10 novembre la presidente dell’associazione Nessuno Tocchi Caino, Rita Bernardini, ha avviato un’azione non violenta per denunciare quanto poco il governo stia facendo al fine di ridurre in maniera significativa la popolazione detenuta. Perché innanzitutto hai deciso di aderire a quest’azione, quali sono le tue motivazioni?
Per cercare di dare supporto a un’azione piuttosto decisa, appunto quella di Rita Bernardini, che però fatica a trovare visibilità. Ho cercato allora, insieme a Luigi Manconi e ad altri, di dargliene un poco di più unendoci abbastanza simbolicamente perché i miei due giorni di digiuno non sono certamente un sacrificio come quello che sta affrontando lei. Peraltro, c’è stata un poco di visibilità ma anche quella non è ancora servita allo scopo perché quell’aspetto, strettamente legato alla pandemia, del sovraffollamento della popolazione carceraria continua a non essere affrontato dal governo e si rischia in breve tempo, se non ci si è già, di entrare in emergenza. Il carcere infatti non è un luogo come un altro, innanzitutto perché non vi si può praticare il distanziamento e, più in generale, perché non vi si può controllare nemmeno quel poco che si può controllare al di fuori. Siccome non ci sono altre armi, l’unica è quella di ridurre la popolazione carceraria, cioè di fronteggiare una volta per tutte il problema del sovraffollamento.

Sono passati 60 anni dal primo sciopero della fame di Marco Pannella – era il 1960, Pannella era corrispondente del “Giorno” a Parigi e seguì un vecchio anarchico, Louis Lecoin, che protestava contro la guerra d’Algeria – l’uomo politico italiano che più fece di sé e del suo corpo il suo stesso programma politico e grazie a cui ancora oggi ci sono radicali che continuano a entrare nelle carceri nella santa convinzione che il progresso di un popolo si misura dalle sue prigioni. Che senso ha oggi, che i corpi a furia di oversharing sui social di pose e selfie sembrano aver perso qualsiasi intimità e insieme qualsiasi incidenza nell’azione politica – e la pandemia ci s’è aggiunta a corredo imprevedibile eppure calzante, un’azione politica come lo sciopero della fame?
Io credo che non abbia importanza quanto cambiamento ci sia stato. L’azione è sempre la stessa e mette in diretto contatto il corpo di chi manifesta con i corpi delle persone per cui si manifesta perché c’è sempre di mezzo una moltitudine o alle volte una persona sola il cui corpo è in pericolo. Queste non sono forme, diciamo così, di lotta che si fanno per qualsiasi motivazione. Per altre ragioni, ci sono altre forme di lotta, i referendum ad esempio. Quando però c’è di mezzo il corpo, con il corpo si va a sollecitare un intervento e credo che, quali che siano i cambiamenti intervenuti nella nostra società e tanto più ora che ci troviamo in una situazione eccezionale, l’atteggiamento non deve cambiare, soprattutto per chi come la Bernardini ha preso sulle proprie spalle l’eredità di Marco Pannella. La solidarietà e quel poco di aiuto che cerchiamo di dare noi non hanno niente a che fare con quello che fa lei, però quello che fa lei mantiene secondo me una sua forza ed efficacia purché la gente lo sappia. Il problema è tutto qui. E quindi cerchiamo di far sapere al più largo numero di persone possibile quello che sta succedendo in modo che il governo sia costretto a rispondere. Poi, risponderà come meglio crede, però i dati di fatto son quelli e insomma son numeri! C’è poco da discutere su quelli.

Alla maggior parte degli italiani, afflitti ognuno dall’affanno suo, del carcere non importa niente o importa quel tanto necessario a elaborare la convinzione che chi sta in galera qualcosa avrà pur fatto e tanto basta a chiudere la faccenda. Perché a te sta a cuore il tema del carcere?
Per quella ragione lì, che hai detto prima te. Perché è proprio da come vengono trattate le carceri e le persone dentro le carceri che si misura il vero grado di civiltà di un popolo e di un paese. Già quando non ci sono emergenze ugualmente certe situazioni nelle carceri sono al limite della sopportabilità, ma quando c’è un’emergenza come questa! E poi – oh, attenzione! – è vero che nelle carceri ci sono i detenuti, ma nelle carceri ci sono pure le guardie e gli operatori. Vedi come quel discorso lì un po’ revanscista del “se lo meritano” cade immediatamente: guardie e operatori di sicuro non se lo meritano. Sono lavoratori, tra l’altro impegnati giorno dopo giorno per conto di tutti noi, e sono esposti al contagio perché il carcere è di per sé un luogo patogeno, più di qualsiasi altro. Quindi la questione non riguarda soltanto i detenuti, eppure non ci si pensa mai. Si potrebbe avere un parente detenuto, ma anche un parente poliziotto penitenziario e allora, forse, si capirebbe molto di più. Poi ci sono una serie di altre cose che non vengono tenute nel giusto conto. Mentre si sconta una pena e si vive in comunità dentro una cella – possibilmente non in sette, non in quattro, non in tre in pochi metri quadrati – si dividono tante cose. Per esempio, i pacchi alimentari, che poi ognuno mette a disposizione anche dei compagni di cella. Adesso non si ricevono più i pacchi alimentari, non ci sono più le visite con la frequenza che è prevista dalla legge, cioè l’afflizione della condizione detentiva, grazie alle misure anti-Covid, è aumentata. Però, per contro, non vi è nessuna misura a protezione della salute e questo mi sembra che sia un altro argomento abbastanza esplicito. Bisogna riconoscere che certe condizioni sono di per sé patogene e che la questione è cruda e semplice: sono troppe le persone dentro a una cella e quindi la trasmissione di un eventuale virus diventa automatica e inarrestabile.

E quali parole opporresti, invece, a chi pensa che viviamo in un’epoca di feticismo della fragilità, per cui il manipolo di chi denuncia le violazioni dei diritti fondamentali è in fondo un’orda di anime belle che per una sorta di voyeurismo del dolore insiste nell’impresa di avvicinarsi a situazioni, come il carcere, al limite dell’esperienza umana per trarne qualche sorta di soddisfazione da virtù compiuta?
Ti dico la verità, le obiezioni le conosco tutte però non mi sembra nemmeno il caso di mettersi a obiettare alle obiezioni. È chiaro che una persona che dice quel tipo di cose non viene convinta con degli argomenti. Attenzione: gli argomenti ci sono e sono convincenti – a me m’hanno convinto quando li ho guardati, io mica son nato così, certe convinzioni le ho maturate perché ho voluto guardare ad alcuni temi. Se però si parte prevenuti, qualunque di quei pur buoni argomenti non varrà nulla, quindi non sto a perder tempo a rispondere sempre alle stesse obiezioni. Si è risposto una volta per tutte, se non lo si vuol sentire non lo sentirà. Il fatto è che comunque l’urgenza rimane. Anche se ci sono i fustigatori delle anime belle, dentro alle carceri italiane il contagio si sta propagando con un indice preoccupante. E proprio perché è un luogo nel quale di manovre se ne possono far poche – proprio come nelle Rsa, dove non è che gli ospiti sono reclusi, ma insomma, quasi… – bisogna moltiplicare l’attenzione dovuta. Attenzione che finora non si è avuta e infatti il virus è entrato proprio lì, mietendo centinaia di vittime. Un’altra cosa. Il fatto che la scorsa primavera ci siano state le uniche rivolte carcerarie degli ultimi 15 anni, anche diffuse, è testimonianza del fatto che il governo ha pensato più o meno a tutti tranne che ai detenuti, alle guardie e agli operatori. Ma gli strumenti ci sono! Io capisco la portata politica dell’indulto e dell’amnistia e, benché mi sembrerebbe proprio la situazione perfetta per adottare tali misure – d’altro canto un’amnistia nel 90 è stata fatta e così l’indulto nel 2006, e non c’era una pandemia in corso – capisco che un governo così fragile e così eterogeneo non trovi l’accordo per simili azioni. Eppure ci sono dei tecnicismi che permetterebbero comunque di alleggerire la promiscuità dei corpi, ad esempio mandando a casa persone che sono a fine pena. Insomma, ci sono delle misure efficaci per affrontare l’emergenza e anche di questo parla la Bernardini, della vasta gamma di possibilità presenti per tutelare quella popolazione. L’unica possibilità che non si può adottare è quella di lasciare che si ammalino o che muoiano, perché oltretutto lo si sta decidendo anche per gli operatori penitenziari e uno Stato non può permettersi di fare questo ai propri servitori. È urgente mettere le istituzioni nelle condizioni di non poter evadere la richiesta di affrontare l’emergenza.

Hai parlato tu stesso delle misure di indulto e amnistia. Ti faccio allora una domanda un poco metafisica: cosa rimane di una giustizia che non contempla la clemenza? E cos’è, secondo te, o cosa dovrebbe essere una giustizia giusta?
Qui si va su un territorio che forse interesserà poche persone perché è un territorio ricco di simboli e di rimandi anche filosofici. Di sicuro, la clemenza è contemplata dalle nostre carte, dalla nostra Costituzione. Non sono certo io il primo né è la prima volta che dei cittadini chiedono al proprio governo l’applicazione di un atteggiamento clemente. La clemenza in questo caso, per esempio, sarebbe a tutela della salute, non fine a se stessa. E in ogni caso la clemenza, anche quando è fine a se stessa cioè è quella clemenza che si esercita nei confronti degli esseri umani perché sono tali, alle volte è l’unica vera risposta che si può dare a determinate situazioni. Una su tutte: la sofferenza dovuta alla detenzione. La grazia del Presidente della Repubblica cos’altro è se non un atto di clemenza che si applica in determinati casi che il Presidente della Repubblica stesso e il Ministro della Giustizia hanno chiarito essere meritevoli di questo intervento? Io credo che se ci si mette nei panni altrui, si può capire agevolmente cosa è giusto e cosa non è giusto. E credo che l’idea che i detenuti siano delle belve pronte a colpire di nuovo, pronte a sbranare di nuovo, sia profondamente sbagliata. La maggior parte della popolazione reclusa è composta di persone che, all’uscita dal carcere, non delinquerebbero di nuovo, ma proverebbero a condurre una vita onesta. Ecco perché la clemenza ha una portata evolutiva e non è meramente il piacere di sentirsi buoni. Se ci sono delle possibilità di recupero delle persone, non provare nemmeno a metterle in pratica è una perdita secca per tutti. Non soltanto per chi rimane dentro.

La pena carceraria identifica senza residui il reo con il crimine che ha commesso, sequestrandolo per intero e riducendone la vita a quell’unica azione. Eppure la sproporzione tra il delitto, che riguarda sempre e solo una frazione della persona, e la pena che invece chiude in cella in un impeto di coercizione illimitata…
(…Veronesi accalorato interrompe, ndr) Ma non solo! Si dice che uno sconta una pena per pagare una colpa. Ma quando l’ha scontata, non l’ha affatto pagata la colpa perché gli rimane incollata addosso, timbrata addosso! Se hai pagato, torni pulito, no? Dovrebbe essere così. E invece no! Perché il pregiudizio, che ignora ogni supporto statistico e ogni aderenza ai dati, conduce a pensare che se uno ha rubato è un ladro per sempre, se uno ha commesso violenza è assassino per sempre. E io posso capirlo, dal lato della coscienza di chi ha subito il danno, ma lo Stato è terzo, la legge è terza! E, sinceramente, se fossi un detenuto che paga quel che deve pagare, sconta per intero la sua pena e poi esce e continua a essere considerato non una persona ma un ladro nonostante abbia pagato, ecco mi sentirei veramente tagliato fuori dalla possibilità di rientrare nella società. Questa è la nozione che più manca, secondo me, e cioè che il carcere non potrà mai essere, qualsiasi sia il delitto commesso, risarcitivo nei confronti di chi subisce il reato. Ma deve essere, per quanto riguarda il colpevole, il prezzo che lo rende di nuovo una persona libera, integra e responsabile. Per quel che riguarda il rimorso, l’atteggiamento che la persona colpevole di un reato ha nei confronti di se stessa, evidentemente cambierà di caso in caso e può darsi che alcune persone non si daranno mai pace, altre invece più superficialmente si perdoneranno troppo presto. Ma – ripeto! – lo Stato è terzo ed è lo Stato a decide quanto uno deve pagare. Quando però il reo ha pagato, lo Stato dovrebbe riconoscerglielo e questo non è. Lo sappiamo.

Sì, lo sappiamo. L’ultima domanda la faccio allo scrittore. Da “Centuria” di Manganelli a “Il deserto dei Tartari” di Buzzati, all’ “L’università di Rebibbia” di Goliarda Sapienza, sono decine gli scrittori che hanno dedicato pagine e pagine al carcere. Se la letteratura ha la capacità di resuscitare alla vista pubblica la sensazione delle vite altrui, cosa consiglieresti di leggere sul crimine, sulla sua punizione e sulle biografie di chi commette reato?
Io ho cominciato a “vedere” i detenuti, anche se non avevo detenuti in famiglia o tra gli amici, da ragazzo. Avevo 18 o 19 anni e lessi Il vento va e poi ritorna di Vladimir Bukovskij. Un libro che dà conto di un gulag e di come, con l’intelligenza e la perseveranza, i detenuti riuscissero addirittura a mettere in scacco l’enorme apparato della burocrazia sovietica. Come? Mettendo in pratica una forma di lotta studiata dagli intellettuali. Perché il problema di mettere la gente intelligente in galera è che poi questi, appunto, sono intelligenti. Quindi, tornando al libro, ciascuno di quei detenuti comincia a scrivere quindici lettere di reclamo al giorno, il massimo consentito, per qualsiasi anche minima cosa all’istituzione e per legge i burocrati devono rispondere a ognuna delle lettere di quei duemila detenuti. Capisci? Loro non avevano null’altro da fare tutto il giorno che scrivere queste lettere e gli uomini della burocrazia non riuscivano a evadere una simile mole di corrispondenza. Sfruttando quindi lo stesso meccanismo interno della burocrazia, quegli uomini riuscirono a mettere in ginocchio una delle istituzioni più tremende della storia dell’umanità, quella che governava i gulag sovietici. Quella è stata la prima cosa che ho letto intorno al carcere e mi ricordo che mi colpì il fatto che quei detenuti volessero ascolto per riuscire a eliminare il più possibile la disumanità presente nei gulag. E riuscirono nel loro intento! Può non sembrare un grande risultato, in fondo quegli uomini rinchiusi per le loro opinioni non è che riconquistarono la libertà, però l’idea che l’intelligenza stesse dentro e non fuori dalla cella mi fece pensare. Per esempio, capii che quello non era l’unico posto di coercizione dove questo succedeva e che l’importante era che gli Stati e i popoli non scivolassero nella condizione in cui l’intelligenza è rinchiusa e fuori c’è l’ottusità. Noi non siamo a questo livello, ma bisogna vigilare altrimenti l’inerzia delle istituzioni, se protratta, potrebbe portarci proprio lì.