L’istituzione di un polo universitario penitenziario regionale, per aumentare il numero di opportunità di studio per i detenuti della Campania, è uno dei progetti che si potrebbero realizzare nel più breve termine. «Ma a patto di avere spazi adeguati. Non si può fare il polo universitario tanto per farlo, la condizione essenziale è che si seguano la logica e il modello di Secondigliano», chiarisce Marella Santangelo, architetto, docente alla Federico II di Napoli, responsabile scientifico dell’accordo di ricerca tra il Dap della Campania e l’università, componente del direttivo della Conferenza nazionale dei delegati dei rettori per i poli universitari penitenziari e fra i membri del tavolo 1 degli stati generali dell’esecuzione penale.

Un tavolo concluso anni fa con decine di proposte, nessuna attuata. Perché? «Perché, in Italia, del carcere non importa a nessuno, non si è mai deciso di investire seriamente sulla qualità dello spazio. Eppure il carcere è l’unico edificio pubblico abitato perché il detenuto, nel tempo che trascorre in carcere, abita quel luogo – osserva la docente – I pochi spazi a disposizione sono spazi per lo più ricavati, non essendoci un progetto nella stragrande maggioranza degli istituti penitenziari, costruiti tra gli anni ’70 e ‘90, tutti uguali e con un layout funzionale che tristemente viene ancora usato dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, senza la volontà di usare lo spazio per rendere il tempo del recluso un tempo di dignità e non di disperazione».

«Questo è lo scenario generale – prosegue Santangelo – poi ogni istituto è una realtà a sé e i casi vanno valutati singolarmente. Ci sono strutture dove i direttori fanno i salti mortali, dove si compiono grandi sforzi per ricavare un giardinetto o un angolo per i colloqui dei detenuti con i bambini». Ma sono iniziative sporadiche, servirebbe una progettualità di insieme. «Lo spazio per i colloqui con i bambini, per esempio, andrebbe ripensato completamente, studiando bene come creare spazi per l’attesa e spazi per poter stare con i genitori una volta dentro il carcere», chiarisce Santangelo. «In altri Paesi europei – racconta – ci sono alloggi dove i detenuti hanno il permesso di stare alcune ore o una giornata intera con i familiari. In Norvegia ci sono addirittura spazi per garantire ai detenuti quel diritto alla sessualità che nella nostra Italia non si può nemmeno pronunciare ed è un diritto negato».

Per non parlare degli sprechi nelle strutture carcerarie. «Ci sono sprechi di tutto – sottolinea Santangelo – Di acqua che scorre, di luci sempre accese. Eppure si potrebbe lavorare sulla pelle di questi edifici e fare un retrofit tecnologico conservando le strutture. Perché io sono per svuotare le carceri, non per farne di nuove». Come? «Si potrebbe cominciare con dei lavori di manutenzione, vedere cosa si può fare più rapidamente e semplicemente senza enorme esborso di denaro, e poi, piano piano, valutare e progettare anche investimenti più grandi. Ci sono grandissimi passi in avanti che si possono fare con costi contenuti».

I corridoi allestiti con librerie e spazi per la lettura, alcuni anni fa, nel padiglione Genova del carcere di Poggioreale ne sono un esempio: «Fu un progetto voluto dall’allora direttore e oggi provveditore Antonio Fullone. Studenti di Architettura e detenuti lavorarono assieme, fu un’impresa straordinaria e spero che si possa presto ripetere anche in altri reparti», si augura la prof. I progetti a cui lavora sono tanti: «Tra gli obiettivi c’è quello di creare case dell’affettività a Secondigliano».

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Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).