Il 90% dei ricorsi per trattamento inumano o degradante in carcere si risolve in indennizzi a favore dei detenuti sotto forma di sconti sul tempo di reclusione. Sono ricorsi che si ispirano alla sentenza Torreggiani, quella con cui – con decisione presa all’unanimità l’8 gennaio 2013 a seguito del ricorso presentato da sette detenuti delle carceri di Busto Arstizio e Piacenza per i mesi trascorsi in celle triple e ciascuno con meno di quattro metri quadrati a disposizione – la Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani. «Lo Stato italiano – osserva il garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello – preferisce essere condannato per il trattamento degradante nelle carceri e pagare risarcimenti invece di investire seriamente per migliorare le condizioni di vita all’interno delle celle».

È l’ennesima contraddizione che balza agli occhi quando si affronta il tema carcere. Eppure investire sulla funzione rieducativa del carcere dovrebbe essere una priorità per lo Stato, per la società civile. E la funzione rieducativa ha senso se non si perde di vista il rispetto della dignità dei reclusi: un concetto recentemente ribadito dalla Cassazione secondo la quale lo spazio vitale per ciascun detenuto dev’essere di tre metri quadrati e va calcolato al netto degli arredi fissi. «A cosa serve allestire librerie nei corridoi dei padiglioni se poi ci sono carceri dove non ci sono spazi per la socialità, celle dove non entra la luce del sole, dieci o dodici detenuti in una stanza?», chiede provocatoriamente Ciambriello. Poi cita l’esempio del carcere di Secondigliano. Lì le celle singole, con bagno e doccia annessi, dovevano essere un modello di dignità (riconosciuta ai reclusi) e di efficienza (legata alla gestione degli spazi): «Ma alla fine hanno messo i letti a castello anche in quelle celle – spiega il garante regionale – e se è vero che si è data compagnia al detenuto, è anche vero che si è ridotto lo spazio vitale di ognuno di loro».

Il fatto è che le celle con meno di 3 metri di spazio funzionale rischiano di rendere la detenzione una tortura. Servirebbero maggiori spazi e una diversa gestione delle misure restrittive. Riguardo al secondo punto è sempre acceso il dibattito sui temi della carcerazione preventiva e della separazione delle carriere tra giudici e pm. Quanto al primo punto, invece, è chiaro che andrebbe attuata una nuova progettualità di edilizia penitenziaria. Ma i tempi sembrano biblici. A Poggioreale ancora si attende il via ai lavori per la ristrutturazione di tre padiglioni finanziata dal governo più di tre anni fa con 12 milioni di euro e rimasta in sospeso in attesa dello sblocco dei fondi da parte del Provveditorato alle opere pubbliche della Campania. Se sarà rispettato l’ultimo programma stilato dal Provveditorato dopo le sollecitazioni del garante regionale, l’attesa starebbe per terminare e all’inizio del 2021 dovrebbero iniziare i lavori, dopo i sopralluoghi e i carotaggi avviati in questi mesi. Si vedrà. Intanto il sovraffollamento resta un problema e le carceri pollaio rischiano di rendere la reclusione «un trattamento degradante o inumano», per dirla con le parole della Corte europea che ha dettato la traccia per centinaia di ricorsi.

È stato il caso del boss napoletano Patrizio Bosti, considerato uno degli storici esponenti della camorra influente tra la periferia e il centro storico di Napoli. Dopo aver scontato 30 anni di reclusione per una serie di reati di matrice camorristica, Bosti aveva ottenuto una scarcerazione anticipata e un risarcimento di circa 3mila euro avendogli riconosciuto, il Tribunale di Bologna, le condizioni inumane e degradanti patite nei vari penitenziari in cui era stato recluso, da Poggioreale a Bellizzi Irpino, Rebibbia, Regina Coeli, Trani, Palermo, Parma. A maggio scorso, dopo le polemiche per la sua scarcerazione, Bosti fu nuovamente arrestato per un residuo di circa sei anni da scontare. Un caso simile è quello di Pasquale Zagaria, che aveva ottenuto una riduzione di 210 giorni sul suo periodo di reclusione per il trattamento inumano riconosciuto dai giudici quando, in un carcere piemontese, fu messo in una cella senza riscaldamento. Il caso del boss dei Casalesi, messo ai domiciliari a febbraio e tornato in carcere la settimana scorsa, è quello su cui più si sono concentrate le tesi populiste e giustizialiste di questi mesi.

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Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).