Macelleria cilena nel carcere di Santa Maria Capua Vetere
Pestaggi e torture nelle carceri, Bonafede sapeva della repressione per vendicare la rivolta
La Corte di Cassazione ha stabilito qual è lo spazio minimo del quale deve disporre, nella cella, un detenuto. Tre metri quadrati. Letti esclusi. Ci sono migliaia di detenuti che vivono, oggi, in uno spazio molto più piccolo di quello deciso dalla Cassazione. Già questo è un trattamento contrario ai principi di umanità, e dunque contrario alla Costituzione, e dunque illegale. Ma in fondo è piccola cosa se messo a confronto con quello che è successo in alcune carceri italiane – non sappiamo ancora quante e quali – nel mese di aprile. È successo che centinaia o forse migliaia di guardie hanno picchiato a sangue i detenuti. In un clima da Argentina di Videla. Noi avevamo denunciato in giugno quel che era successo a Santa Maria Capua Vetere il 7 aprile, e prima ancora, in marzo, avevamo denunciato quel che stava succedendo in altre carceri. Ci fondavamo sulle denunce raccolte dall’associazione Antigone. Alessio Scandurra ha scritto il primo pezzo sul Riformista del 21 marzo. Quindi due settimane prima della spedizione punitiva nella prigione di S.M.Capua Vetere. Perché in quelle due settimane nessuno è intervenuto, ha indagato, ha accertato cosa stesse succedendo, ha impedito che la situazione degenerasse? Qualcuno chi? Le autorità, il Dap, magari il ministro.
Ieri la questione è stata ripresa dal Domani – il nuovo quotidiano di De Benedetti diretto da Stefano Feltri – con un articolo molto informato di Nello Trocchia che ha parlato con uno dei testimoni del pestaggio del 7 aprile. Il testimone è un detenuto che ora è uscito dal carcere e che non solo ha parlato di quello a cui aveva assistito direttamente, ma anche di quello che è stato ripreso dalle telecamere, e cioè di un filmato che ora è nelle mani della Procura e che dimostra che le denunce non erano affatto inventate. Il Domani racconta dell’arrivo di circa 300 guardie, col volto coperto, e dell’irruzione nelle celle, e poi dei detenuti fatti spogliare, e poi picchiati a sangue, e poi fatti uscire nudi nel corridoio e fatti correre in mezzo a due file di guardie che li colpivano ancora coi pugni, i calci, le manganellate. Vedremo cosa uscirà dall’inchiesta della magistratura. Per ora ci sono una cinquantina di indagati per tortura. Intanto cerchiamo di ricostruire la cronologia degli avvenimenti.
L’8 marzo in diverse carceri italiani scoppia la rivolta. I detenuti protestano per le condizioni della prigionia, per lo stato di isolamento nel quale si trovano anche a causa del Covid che ha provocato la fine delle visite di parenti e l’interruzione di ogni comunicazione con l’esterno. La rivolta è molto dura, la polizia interviene, centinaia di detenuti vengono trasferiti coi cellulari, 14 di loro muoiono, in gran parte per l’uso esagerato dei farmaci raccolti nelle infermerie saccheggiate. 14 morti sono un numero enorme. Forse senza precedenti nel dopoguerra. Il ministro va in Parlamento e trascina via un discorsetto burocratico nel quale non spiega niente e sembra non cogliere la gravità di quel che è successo. Anche i gruppi parlamentari non appaiono molto colpiti da questa strage. In fondo – pensano – erano solo detenuti. I detenuti, oltretutto, sono in genere considerati colpevoli dalla gente perbene. Anche se la metà delle vittime – chissà se è lecito usare la parola vittima per un detenuto… – erano in attesa di giudizio e dunque, forse, innocenti.
L’unico gruppo parlamentare che protesta un po’ è quello di Renzi. Neppure Renzi, però, osa chiedere la rimozione del ministro, perché la rimozione del ministro potrebbe provocare la caduta del governo. Quindi chiede solo la cacciata del capo del Dap. Il quale, effettivamente, dopo qualche settimana sarà cacciato: però non sarà cacciato per la sua responsabilità nella morte di 14 persone, ma perché non ha impedito la scarcerazione, da parte dei tribunali di sorveglianza, di alcuni detenuti in cattive condizioni di salute o molto vicini alla fine della pena. Da quel che si può capire, dopo la rivolta qualcuno decise che i detenuti andavano puniti. Bisognava dargli una lezione. E, secondo le denunce raccolte da Antigone, iniziano i pestaggi in diverse carceri. Nessuno si muove per accertare se è vero. Il ministero, al solito, dorme. Nessuno prende misure perché i pestaggi non si ripetano. E così, nonostante gli allarmi lanciati, il 7 aprile si arriva all’episodio terribile di Santa Maria Capua Vetere. È probabile che a spingere le guardie a questa azione dissennata sia stato anche il clima che si era creato nell’opinione pubblica. La caccia al carcerato, l’ideologia della chiave delle celle da buttar via, l’auspicio che i prigionieri possano marcire e morire in cella. E di questo la responsabilità non è solo della politica e del governo.
Ma non ci si può fare niente: non è che puoi vietare ai giornali e alle tv di correre tutti appresso a Marco Travaglio e di provare a superarlo in amor di forca. La libertà di stampa ha tanti effetti collaterali, ma se non ci fosse sarebbe una tragedia superiore. La politica invece deve rispettare certi limiti. Anche la politica populista. E non lo fa mai. Qualcuno adesso chiederà a Bonafede che provvedimenti intende prendere? Se darà retta ai filmati o preferirà allinearsi a Salvini che dopo le notizie sul pestaggio si era schierato al fianco dei picchiatori e contro la Procura che aveva aperto un’indagine? Ma ora Bonafede dovrà rispondere anche su un’altra questione. E cioè lo spazio in cella per i detenuti del quale accennavamo all’inizio di questo articolo. È stato lui a porre il quesito alla Corte di Cassazione per sapere se i tre metri quadrati ritenuti lo spazio minimo per ogni detenuto (per ogni essere umano) dovessero essere considerati metri quadrati “liberi” e cioè interamente a disposizione del detenuto, o invece spazi occupati anche dai letti e dai mobili. La differenza è notevole, perché se pensate che comunque una branda occupa circa un metro quadrato e mezzo, e poi ci mettete il cucinino e l’armadietto, capite che i tre metri diventano un metro. E su questa idea del metro quadrato si basava il ministero per sostenere che il sovraffollamento non era fuorilegge.
Ora questa idea cade, almeno in parte, perché la Cassazione ha stabilito che almeno il letto non può essere conteggiato nei tre metri. E Bonafede dovrà provvedere. E l’unico modo per provvedere è bloccare l’uso selvaggio delle carcerazioni preventive (riducendole al minimo e cioè facendole rientrare nell’ambito della legge) e una misura di clemenza (amnistia e indulto) o almeno la scarcerazione delle migliaia di detenuti che devono scontare meno di un anno di galera. Sulla questione dei tre metri quadri come spazio minimo vitale – per concludere – trascrivo qui un post su Facebook dell’avvocata Maria Brucale che ho trovato particolarmente acuto:
Direttiva n. 2008/120/CE del consiglio del 18 dicembre 2008: «Il verro adulto deve disporre di una superficie libera al suolo di almeno 6 metri quadri. Qualora i recinti siano utilizzati per l’accoppiamento, il verro adulto deve disporre di una superficie al suolo di 10 metri quadri e il recinto deve essere libero da ostacoli».
Il detenuto adulto può disporre di ben tre metri quadri e senza gli arredi saldamente fissi al suolo! E non può accoppiarsi. La sessualità del verro è un diritto, quella del detenuto no. Si potrebbe obiettare che dal verro verrà un maialetto che poi sarà porchetta, lardo, prosciutto, mortadella ecc. ecc. E, insomma, eccolo l’interesse sociale. Da un uomo trattato come uomo, cosa possiamo ricavare? Magari che se è entrato uomo non esca verro. O che se è entrato verro non esca cinghiale.
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