Nelle carceri della Campania ci sono 17 psicologi e 23 psichiatri provenienti dall’Asl. A loro si aggiungono 43 esperti psicologi che fanno parte dell’organico dell’amministrazione penitenziaria. Pochissimi rispetto ai detenuti che avrebbero bisogno di un sostegno psicologico e di percorsi di lunga durata. Al quadro drammatico della carenza di personale medico specializzato, si aggiunge la quasi totale assenza di “articolazioni psichiatriche”, cioè di aree destinate ai detenuti affetti da problemi mentali. In Campania l’articolazione psichiatrica è presente solo in cinque istituti penitenziari: Secondigliano, Santa Maria Capua Vetere, Benevento, Salerno, Sant’Angelo dei Lombardi, oltre che nel carcere femminile di Pozzuoli. La situazione delle carceri campane è al collasso e da febbraio sino a oggi ci sono stati quattro suicidi. L’ultimo pochi giorni fa a Poggioreale quando Antonio, detenuto 39enne, ha deciso di togliersi la vita. In tutto il Paese, invece, il numero di suicidi in cella è salito a 23.

È vero che il carcere è per sua stessa natura un luogo dove albergano i fantasmi della depressione, della tristezza e dell’arrendevolezza, ma è anche vero che alcuni detenuti entrano nei penitenziari quando già vivono disagi psichiatrici e lì vengono lasciati soli a combattere i loro mostri. «Nel solo carcere di Poggioreale, ci sono 100 detenuti che vengono trattati come detenuti “normali” ma che provengono da istituti per la cura di patologie mentali – fa sapere Samuele Ciambriello, garante regionale dei detenuti – Lo Stato dovrebbe collocare quelle persone in residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), cioè in strutture sanitarie per detenuti affetti da problemi mentali». I numeri, invece, raccontano una storia diversa: «Ci sono 11 detenuti nel carcere di Benevento, otto in quello di Carinola, sette ad Avellino, 10 a Secondigliano e 23 Santa Maria Capua Vetere che prima erano seguiti dal servizi di salute mentale e che oggi sono detenuti illegittimamente in un carcere comune», aggiunge Ciambriello.

Questa fotografia della realtà carceraria è una delle tante componenti che spinge un uomo privato della libertà a privarsi anche della vita. E questo è stato anche il caso di Antonio, padre di tre bambini, che ha deciso di suicidarsi. Antonio avrebbe dovuto scontare ancora due anni a Poggioreale. Era la terza volta che tentava il suicidio e per questo era sottoposto a una sorveglianza speciale perché considerato un soggetto a rischio. Condivideva la cella con altre sei persone, ma ciò non è bastato a evitare la tragedia. Non si sa come sia riuscito a sfuggire allo sguardo dei suoi compagni e degli agenti penitenziari che, nelle altre circostanze, erano riusciti a salvarlo. Non si sa perché a due anni dalla fine della pena abbia deciso di farla finita, ma possiamo provare a immaginarlo. «Non c’è mai una sola ragione dietro un suicidio – racconta Ciambriello – Antonio aveva già dei problemi e non è stato assistito in maniera adeguata».

Di nuovo al punto di partenza: mancano psichiatri e psicologi. «L’anno scorso l’Asl di Avellino ha indetto un concorso per assumere nell’organico delle carceri due psichiatri, con contratto a tempo indeterminato – racconta il garante – Quante persone si sono presentate? Zero». Spesso sono gli agenti penitenziari a parlare con i detenuti, cercando di capire e segnalare quelli a rischio ma anche questo comparto del carcere andrebbe potenziato. «In tutta la Campania ci sono 5mila agenti per 6.404 detenuti – continua Ciambriello – ma il problema è che si tratta di un lavoro così usurante ed emotivamente pesante che, ogni giorno, circa 800 poliziotti non prestano servizio». I detenuti con disagi psichiatrici si ritrovano dietro le sbarre e in compagnia della loro solitudine. Perciò Pietro Ioia, garante dei detenuti del Comune di Napoli, ha chiesto di «essere informato di ogni caso a rischio».

Farà visita ai detenuti anche ogni giorno «se questo dovesse servire a evitare gesti disperati». Intanto lo Stato vuole assumere 95 psichiatri da collocare in tutte le carceri italiane ma «ne servirebbero 950 per gestire i soggetti fragili – conclude Ciambriello – Non si può morire di carcere in carcere. Bisogna creare percorsi per evitare altre situazioni drammatiche e che possano reinserirli nella società». È questo o no lo scopo della detenzione?

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Giornalista napoletana, classe 1992. Vive tra Napoli e Roma, si occupa di politica e giustizia con lo sguardo di chi crede che il garantismo sia il principio principe.