Un problema all’interno delle carceri sono i suicidi in cella. E una possibile soluzione potrebbe essere quella di potenziare il sostegno psicologico se, come emerge dall’ultima relazione annuale del garante regionale dei detenuti, Samuele Ciambriello, “va riscontrata la difficoltà negli istituti di pena di avviare programmi di igiene mentale di comunità dato il limitato o assente accesso ai servizi psichiatrici”. Finire in cella per la prima volta, soprattutto per un’accusa che si ritiene infondata o quando ci si ritiene vittima di errori giudiziari, è dura. Durissima. Chi ha provato questa esperienza racconta lo smarrimento, lo sconforto, la paura. L’istituto che ha il più alto tasso di suicidi è Poggioreale sebbene non sia tra gli istituti con il maggior livello di sovraffollamento.

“Risulta evidente dunque che i fattori di rischio suicidario non sono riconducibili esclusivamente alle caratteristiche dell’istituto, bensì si intrecciano con le caratteristiche personali, come dichiarato dall’Organizzazione mondiale della salute nel rapporto sul suicidio del 2003”, si legge nella relazione del garante che fa il punto su un anno di storie ed eventi accaduti nei 15 penitenziari della Campania. “Gli istituti di pena sono luoghi dove si concentrano gruppi vulnerabili che sono tradizionalmente tra quelli più a rischio. L’impatto psicologico dell’arresto e dell’incarcerazione, le crisi di astinenza dei tossicodipendenti, la consapevolezza di una condanna lunga o lo stress quotidiano della vita in carcere possono superare la soglia di resistenza del detenuto medio e a maggior ragione di quello a rischio elevato”, è l’analisi. Non in tutti gli ambienti carcerari esistono procedure che consentono di identificare e gestire i detenuti più fragili, quelli che possono tentare o realizzare l’estremo gesto di togliersi la vita. Non basta lo screening per gli indicatori di rischio elevato.

Quello che manca o va potenziato, secondo la relazione del garante, è un adeguato monitoraggio del livello di stress dei detenuti: “Vi è poca probabilità di identificare situazioni di rischio acuto”. Eccolo il nodo, il punto su cui intervenire è la soluzione proposta. Perché, come emerge dall’analisi dei dati del rapporto annuale, “anche laddove programmi o procedure adeguate sussistono, eventuali condizioni di sovraccarico lavorativo per il personale o il loro mancato addestramento possono talvolta impedire il riconoscimento dei segnali precoci di rischio suicidario”.

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Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).