Raffaella Carrà è stata una rivoluzione. Il punto di svolta. Prima di lei c’è la tv bigotta e bacchettona che misurava la lunghezza delle gonne col centimetro e soppesava ogni battuta con un’attenzione ossessiva. La botta del ‘68 arrivò ma in ritardo di un paio d’anni. Dovendo assumere una forma nella quale incarnarsi scelse l’ombelico di Raffaella Pelloni, in arte Carrà. Quell’ombelico scoperto, spudoratamente ostentato nella sigla d’apertura di Canzonissima 1970, presentata in coppia con Corrado, mentre cantava Ma che musica maestro, una di quelle sue canzoni tanto orecchiabili che non te le toglievi più dalla mente per quanto poco potessero piacerti, tolse il fiato ai guardiani di Viale Mazzini. Pochi anni prima sarebbe stata un’ira di dio ma i tempi erano cambiati e il verdetto del pubblico fece il resto. La ragazza tirava. Gli indici di gradimento erano alle stelle, la canzonetta andava via come il pane. Si arresero.

Raffaella corteggiava il successo già da un pezzo. La prima particina al cinema le era stata affidata a soli 8 anni, nel 1952, nel non indimenticabile Tormento del passato di Mario Bonnard. Poi aveva studiato danza, studiato al Centro sperimentale di cinematografia di Roma e fatto di tutto: parecchio cinema ma sempre in ruoli secondari, anche con Sinatra che le fece un bel po’ di corte, teatro, radio, sceneggiati tv, valletta di Lelio Luttazzi. Niente da fare. Il talento c’era. Era il mezzo adeguato a valorizzarlo che ancora latitava. Raffaella Carrà non era un’attrice e neppure una cantante, nonostante il successo poi ottenuto in tutta Europa e arrivare al nono posto delle classifiche inglesi con la versione english di A far l’amore comincia tu a metà anni 70 non era uno scherzo. Raffaella era una showgirl, una che si trovava nel suo elemento naturale quando doveva fare di tutto occupando sempre, in ogni veste, il palco. Non era la prima. C’era già stata la grandissima Delia Scala ma lei era troppo in anticipo sui tempi. Per scalare in pochi mesi ogni vetta in quella parte ci voleva l’egemonia della tv, che arrivò all’inizio dei 70, e ci voleva una rivoluzione culturale che permettesse di bruciare i vincoli censori come i reggiseni delle femministe americane, negli stessi anni.

I tutori della morale ci provarono comunque, quando l’allusività diventò troppo scoperta con balletto sulle note del Tuca Tuca. Non che ci fosse niente di eccessivo ma insomma, con tutti quei palpeggiamenti si lasciava immaginare un seguito sconveniente. Raffaella aggirò il divieto chiedendo ad Alberto Sordi, un intoccabile, di ballarlo con lei. Finì che spopolò anche negli oratori, la censura di mamma Rai fu sbaragliata, Raffaella potè imporre per tutto il decennio il suo stile: l’esaltazione di una sessualità solare, priva di ogni aspetto torbido, forse non tanto erotica ma che per l’Italia dell’epoca fu il giro di boa. La stella continuò a brillare per quasi vent’anni: una macchina da successo. Nel 1974 presentò Milleluci insieme a Mina, per l’ultima volta mattatrice prima del ritiro, e fu quasi un passaggio di testimone, non per le doti canore ma perché anche Mina, nel decennio precedente, aveva rotto parecchi tabù e si era imposta oltre che come cantante come una delle poche presenze femminili egemoni in un’epoca ancora tutta al maschile.

Poi una giostra di programmi, dischi di gran successo in Italia e all’estero, fino all’invenzione di un altro e nuovo stile televisivo con Pronto Raffaella, dal 1985 al 1987, il primo programma che riuscì con tanto pieno successo a coinvolgere direttamente il pubblico. Con l’immancabile scia in rosa scandalo: i rapporti sentimentali e professionali con Gianni Boncompagni e Sergio Japino, i troppi soldi spesi (e guadagnati) per il faraonico Buonasera Raffaella. L’astro si appannò quando Raffaella Carrà, nel 1987, passò a Finivest. Era una donna Rai come nessun’altra e fu un passo falso. Ma forse il vento sarebbe cambiato comunque. Il suo segno, però, Raffaella Pelloni lo aveva già lasciato. Indelebile.