Chissà se un giorno sarà possibile identificare i “soggetti diversi da Cosa nostra” che si nascondono da oltre trenta anni dietro la morte di Paolo Borsellino.
La sentenza di Caltanissetta depositata il 5 aprile scorso nel processo a carico dei poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo sul “depistaggio Borsellino”, pur dichiarando la prescrizione per due degli imputati e assolvendo il terzo, ha messo un punto fermo su come vennero condotte le indagini sull’uccisione del magistrato siciliano.

Nelle circa 1500 pagine della sentenza, i giudici nisseni scrivono infatti che “alla luce di tutte le circostanze di cui si è dato conto si ritiene che se ne giovò chi aveva tutto l’interesse a far sì che le matrici non mafiose della strage di via D’Amelio non venissero svelate nella loro reale consistenza”.
I fatti sono noti. Il falso pentito Vicenzo Scarantino, gestito della polizia di Stato del questore Arnaldo La Barbera, poi morto nel 2002, si autoaccusò di essere stato l’organizzatore della strage.

Dopo le sue rivelazioni vennero così arrestate delle persone che con la strage, però, non c’entravano nulla. Ad iniziare del meccanico Giuseppe Orofino, accusato di aver custodito la Fiat 126 utilizzata come autobomba. Condannato all’ergastolo, il processo nei confronti di Orofino venne riaperto dopo la testimonianza di Gaspare Spatuzza. Assolto da ogni accusa, Come risarcimento per i 17 anni di ingiusta detenzione, gli eredi del meccanico vennero risarciti con 1,5 milioni di euro.

Solamente sfiorati dalle indagini i magistrati che condussero l’inchiesta, i pm Carmelo Petralia e Annamaria Palma, inizialmente accusati di concorso in calunnia aggravata. La linea difensiva di essersi mossi per andare a sentire Scarantino in virtù della (avvenuta) ritrattazione televisiva risultò essere “smentita dai fatti”, poiché gli avvisi dell’interrogatorio furono notificati il giorno prima che il falso pentito manifestasse l’intenzione di ritrattare. Le vere ragioni di quegli interrogatori, che hanno poi prodotto la ritrattazione della ritrattazione e quindi la conferma delle false accuse, non furono mai chiarite dai magistrati.

Quanto al clima che si respirava alla Procura di Palermo dopo l’omicidio di Giovanni Falcone e pochi giorni prima dell’omicidio di Borsellino, la sentenza riporta le dichiarazioni dell’ex pm Antonio Ingroia il quale ricordò cosa avvenne dopo l’incontro in Procura del 14 luglio 1992 a proposito dell’indagine Mafia e Appalti. Borsellino, rivolgendosi ai colleghi Guido Lo Forte e Giuseppe Pignatone, avrebbe detto: “Voi non mi raccontate tutta la vera storia sul rapporto dei Ros”.