L'intervista al collaboratore dei giudici Giovanni Paparcuri
“A che servono le celebrazioni della strage di via D’Amelio? Su Falcone e Borsellino solo retorica dalle istituzioni”

Per Paolo Borsellino era un dovere morale quello di continuare a fare il suo lavoro senza farsi condizionare “dalla sensazione, financo dalla certezza, che tutto questo può costarci caro”. La cronaca della sua morte annunciata si consumò il 19 luglio 1992, alle 16:58 in via d’Amelio a Palermo, quando una Fiat 126 rossa riempita da 90 chili esplosivo al plastico Semtex-H venne fatta esplodere. Borsellino era passato a trovare la madre, si era appena acceso una sigaretta. La prima cosa che ha pensato Giovanni Paparcuri fu: “Finalmente il dottore ha smesso di soffrire”.
Era a casa quel pomeriggio, sentì un boato e scese in strada. Se lo aspettava anche lui, se lo aspettavano tutti, soprattutto nel pool antimafia. Paparcuri era stato reclutato per le sue abilità informatiche: informatizzava tutti gli atti del Maxi Processo. È “l’uomo che ha vissuto due volte”, unico superstite dell’attentato che il 29 luglio del 1983 aveva ammazzato il consigliere istruttore Rocco Chinnici, che quel pool lo aveva creato. Paparcuri era l’autista del magistrato, prima lo era stato di Giovanni Falcone.
Non volle farsi riformare e ricevette dai giudici il mandato di occuparsi di quella prima banca dati informatizzata. Era il 1985. Oltre vent’anni dopo, grazie ai suoi ricordi personali, agli aneddoti, ai suoi cimeli e documenti e oggetti che aveva ereditato, ha reso il cosiddetto “Bunkerino”, gli uffici blindati al primo ammezzato del Palazzo di giustizia di Palermo in cui Falcone e Borsellino scrissero i 41 volumi della richiesta di rinvio a giudizio del Maxi Processo, un museo. Quegli anni di tritolo e piombo, il Vietnam della Repubblica, gli anni del terrore stragista in Sicilia e in Italia li ha vissuti da vicino, affianco ai protagonisti. Quello che per gli italiani è storia, passione civile, retorica istituzionale per lui è una questione personale, la sua vita.
Ricorda il pomeriggio di quel 19 luglio?
“Ero a casa quando ho sentito un tonfo sordo, ho capito subito che era un’esplosione. Dal balcone ho visto questa nuvola di fumo nero, mi sono messo in macchina e l’ho seguita fino in via D’Amelio. E ho capito. Lì ho rivissuto la mia esperienza, l’attentato a Rocco Chinnici: la puzza di bruciato, l’odore di carne, di sangue. Vidi il dottore Borsellino, aveva una specie di smorfia, quasi un sorriso, era tutto annerito. Quando arrivò Lucia (figlia del magistrato, ndr) mi fecero rabbrividire le sue grida di dolore e me ne andai. Ma la prima cosa che ho pensato è stata: finalmente il dottore ha finito di soffrire”.
Perché?
“Moralmente era morto il 23 maggio, quando il dottore Falcone diede tra le sue braccia il suo ultimo respiro. Al pronto soccorso, dopo l’attentato di Capaci. Si è portato dietro per sempre quell’immagine. Erano fratelli più che colleghi. Quei 57 giorni sono stati giorni di agonia, un calvario per lui. Lo sapevamo tutti che dopo Falcone era il suo turno. Lo aveva detto spesso: finché è vivo Falcone io posso stare tranquillo. Cambiò, in quei 57 giorni”.
In che senso?
“Lo vedevamo spegnersi giorno per giorno, aveva perso la tranquillità. Era diventato più scorbutico, irascibile. Con noi, con i figli. Forse pensava che così il distacco sarebbe stato meno traumatico. A volte parlavo e lui spesso guardava altrove, pensava ad altro. Quando era morto il dottore Falcone io volevo mollare ma lui mi disse: ‘Non ti preoccupare, ci penso io’, ma dopo una settimana divenne molto più nervoso, soprattutto per come avevano cominciato a indagare sulla strage di Capaci. Venne da me e mi chiese di seguire le indagini, indirettamente seguiva tutto. A fine giugno cambiò atteggiamento, divenne un po’ più disinteressato. Forse aveva saputo che era arrivato l’esplosivo per lui”.
Aveva paura?
“I dottori Falcone e Borsellino non vivevano nella paura che potesse succedere qualcosa a loro. La loro più grande preoccupazione era per i familiari. Si parla di loro come di eroi, così ci creiamo l’alibi che quello che hanno fatto loro noi non lo possiamo fare, ma gli eroi sono i familiari che aspettano a casa che torna il magistrato, l’autista, il poliziotto, quelli che ti salutano con il sorriso quando esci da casa, un sorriso amaro che vuol dire: ‘Chissà se più tardi lo rivedo’. Il giorno dell’attentato a Chinnici non mi portai dietro la pistola. Faceva caldo, avrei dovuto mettere la giacca eccetera, e quindi no, la lasciai a casa. Mia madre pensò allora che doveva essere una giornata tranquilla. E invece stavo per morire. Mi trovò in ospedale qualche ora dopo”.
Qual è il primo ricordo che le viene in mente di Borsellino?
“Quando l’ho conosciuto. Non avevo mai lavorato per lui, non gli avevo mai fatto da autista, ma il giorno dell’attentato a Chinnici si presentò in ospedale, dovevo essere operato il giorno dopo in neurochirurgia. Ero completamente nudo, non riuscivo a sopportare sulla pelle neanche un lenzuolo. Il dottore mi appoggiò la mano sul petto dicendomi: ‘Coraggio’. Io cominciai a urlare come un pazzo dal dolore. Lui indietreggiando, chiedeva scusa. L’ho preso come un patto tra veri uomini d’onore. Lo dico sempre: tutto quello che sono lo devo al dottore Borsellino”.
Che tipo di persona era?
Non posso parlare di uno senza parlare dell’altro. I dottori Borsellino e Falcone si integravano, scherzavano, erano gioviali, scherzavano anche sull’epitaffio che volevano. Borsellino era più affabile, aveva una famiglia, i figli, mi ha dato subito del tu. Il dottore Falcone mi ha sempre dato del lei. E mi chiamava “Papa”: io mi incavolavo perché era il soprannome di Michele Greco, il boss che chiamavano “il Papa della Mafia”. Non mi ha mai detto ‘grazie’, diceva ‘u signurì ci u paga’. E speriamo che un giorno il Signori me lo paghi davvero.
Si ricorda dell’agendina rossa?
Certamente, Borsellino la teneva sempre sul tavolo. Non credo sia scomparsa in via D’Amelio. Lì era pieno di poliziotti, carabinieri, magistrati. Sarà scomparsa in qualche ufficio dov’è arrivata con tutta la borsa.
Sì aspettava le prescrizioni e l’assoluzione nel processo sul depistaggio?
Sì, e da un lato mi dico anche: meglio così. Pensiamo davvero che abbiano deciso quei poliziotti tutto quello? La Barbera e Tinebra sono morti, e la verità non la sapremo mai. Quello che mi fa arrabbiare è che Borsellino non arrestava nessuno se non c’erano i riscontri. Diceva che senza prove preferiva “un colpevole fuori che un innocente dentro, altrimenti poi l’ufficio che figura ci fa”. Questa cura nel lavoro non l’ha ricevuta da parte dei suoi colleghi. Andare dietro a un falso pentito per 25 anni è veramente scandaloso.
Qual è l’eredità di Falcone e Borsellino?
Grazie a loro sono stati fatti dei grandi passi avanti ma la loro eredità, in campo professionale, è andata in gran parte sprecata, le loro idee sono andate sprecate. A metterle in pratica sono i cittadini, quelli che arrivavano al bunkerino e non per fare fotografie o cose del genere ma per conoscere il loro lato umano, per conoscere quello che hanno fatto in vita e gli errori, quelli di chi li ha lasciati da soli. Da buona parte delle istituzioni è in buona parte solo retorica e retorica e retorica. L’Italia è divisa in due: l’Italia che in queste cose ci crede e quella che di queste cose se ne sta fregando e continua a fare il disonesto o il falso moralista. Ma è stato sempre così. Il popolo ha scelto Barabba, e succede anche oggi. Per fortuna non è più come prima ma loro partono sempre un po’ avvantaggiati.
Fiammetta Borsellino ha deciso di non partecipare alle celebrazioni a via D’Amelio.
Anche io, neanche a Capaci sono andato. Quello che faccio è guardarmi una fotografia che mi ha mandato Manfredi (Borsellino, figlio di Paolo, ndr) con una pianta che nel 1986 ho regalato alla signora Agnese quando mi invitarono a casa. Quella pianta è ancora viva. Ma queste celebrazioni a cosa servono? La memoria non occorre farla oggi o il 23 maggio, io ricordo sempre. E questo è un giorno di morte, vanno ricordati per quello che hanno fatto in vita”.
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