Nessuna verità a 30 anni dall'uccisione
Strage di via D’Amelio, storia del più grande depistaggio di Stato e di un processo che non s’ha da fare
Nessun responsabile per il più grande depistaggio di Stato della storia. Questo processo non lo vogliono proprio fare. E questa è vera mafia. La mafia delle complicità che, attraverso la tortura, ha costruito un fantoccio che inventasse una verità di comodo, una qualunque sulla strage di via D’Amelio e sui perché dell’uccisione di Paolo Borsellino. Il fantoccio, una vittima pure lui alla fine, si chiama Vincenzo Scarantino. Ma poi ci sono gli altri, fantocci e mandanti di una storia lunga trent’anni. Ci sono quelli che lo hanno preso, strattonato, minacciato e torturato. Poi gli altri che gli hanno voluto a ogni costo credere mentre lui ripeteva a paperetta quel che altri gli avevano scritto sui foglietti o infilato in gola. E tutti quelli che non hanno voluto controllare neanche se un tipo che si autoaccusava di aver imbottito di tritolo un’auto in un certo garage, almeno avesse mai visto il luogo. Se sapesse come aprirne la porta.
La curiosità, la grande assente nella storia di questi inquirenti. E’ bene sempre ricordarne i nomi: Anna Palma, Carmelo Petralia, Nino Di Matteo. Si sono mai domandati questi bravi magistrati per esempio come mai di quel sopralluogo nel garage dove fu accompagnato Scarantino non esisteva neanche un verbale? E perché nessuno dei tre pm ha avuto la curiosità di parteciparvi? Certo, il regista di quelle indagini condotte con quei metodi fu Arnaldo La Barbera, un poliziotto abile che fu chiamato a Palermo a dirigere il gruppo d’indagine “Falcone e Borsellino” e che ci costruì la propria carriera, diventando subito dopo questore di Palermo. Certo, il meno curioso è stato sicuramente il procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra, mostratosi sordo anche alle segnalazioni di Ilda Boccassini. Ma il cerchio non si può chiudere qui. E non solo perché i due non ci sono più. E neanche ci si sarebbe potuti accontentare (lo diciamo per la famiglia Borsellino e per gli innocenti calunniati) delle condanne dei collaboratori di La Barbera, il dirigente del gruppo “Falcone e Borsellino” Carlo Bò e l’ispettore Luigi Mattei.
La sentenza del tribunale di Caltanissetta che ha registrato la prescrizione del reato di calunnia, non ne ha dichiarato l’estraneità al depistaggio, quindi, un punto fermo l’ha messo: anche per la nostra malandata giustizia qualche comportamento doloso nella costruzione del fantoccio c’è stato. Leggeremo le motivazioni. Ma questo processo è arrivato in tribunale portando sulle spalle due pesanti zavorre. La prima è quella del tempo, perché si è cominciato a indagare solo dopo il deposito degli atti del processo “Borsellino quater” e le rivelazioni del “pentito” Gaspare Spatuzza, il quale per esempio di quell’auto imbottita di tritolo e di quel garage aveva potuto parlare con cognizione di causa perché lui, lui sì, c’era stato. Ritardo doloso, comunque. La seconda zavorra è frutto di quell’ossessione che si chiama “antimafia”. Perché la procura di Caltanissetta ha voluto a tutti i costi contestare agli imputati anche l’aggravante mafiosa. Che è, pur se transitata indenne dalle mani del gup, ovviamente, crollata subito al primo grado di giudizio.
Ma veramente questi pubblici ministeri hanno pensato anche solo per un attimo che questi poliziotti avessero costruito il fantoccio Scarantino in combutta con i boss di Cosa Nostra? Che si fossero impicciati di cose di mafia fino al punto di cercare di incastrare quelli della Guadagna per proteggere i fratelli Graviano? Tutti questi bravi magistrati avrebbero fatto meglio prima di tutto a studiare un po’ di storia politica di quegli anni in cui furono compiute le stragi, con i governi che si succedevano di corsa, con i ministri di giustizia che cadevano come birilli e la prima repubblica che si spegneva a suon di bombe. Avrebbero forse capito anche l’urgenza che avevano a livello istituzionale di trovare subito qualche responsabile.
In quel momento Cosa Nostra, se pur sconfitta dal maxiprocesso voluto da Giovanni Falcone, era ancora vincente perché i capi erano tutti latitanti. E sarebbe stato meglio, per la magistratura e per lo Stato, cercare i responsabili “giusti” delle bombe, senza la fretta di dare in pasto all’opinione pubblica qualche pezzo di carne da sacrificare. Come sta accadendo di nuovo, visto che il tribunale di Caltanissetta ha trasmesso alla procura della repubblica le deposizioni di quattro testimoni, tutti poliziotti che avrebbero giurato il falso per aiutare i colleghi imputati. Allora, ricominciamo daccapo?
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