Il caso e le polemiche
Maxiprocesso, fango su Daniela Chinnici: vietato criticare gli abusi dei pm
«Quel libro alla Camera umilia le vittime di mafia», sentenzia Nando Dalla Chiesa, indignato perché il libro di Alessandro Barbano, L’inganno, viene presentato in Parlamento. Custode dell’ortodossia emergenziale l’uno, dissacratore dell’Antimafia fatta di leggi speciali e retorica l’altro, fino a evocare lo spirito di Leonardo Sciascia, cui dedica, insieme ai familiari, il libro. E nelle stesse giornate una forte critica “a rovescio”, quando una docente associata di procedura penale a Palermo, Daniela Chinnici, osa toccare l’intoccabile, il maxiprocesso voluto da Giovanni Falcone.
Inutile soffermarsi alla scelta del termine “obbrobrio” scelto per definirlo, quanto entrare nel merito delle argomentazioni usate. Due facce della stessa medaglia. Da una parte il ruolo che tutto quanto il pacchetto-antimafia, che comprende, oltre alle leggi speciali, non solo pubblici ministeri e giudici, ma anche partiti come il Pd e i Cinquestelle, e poi giornalisti, sindacati, associazioni varie e comitati di parenti, è venuto assumendo nel corso degli anni. E dall’altra, il punto di partenza, il maxiprocesso di Palermo, concluso con la famosa sentenza della Cassazione del 30 dicembre 1992. Cui seguirono le stragi di Cosa Nostra, l’omicidio di Salvo Lima e poi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
In due articoli sul Fatto quotidiano (19 e 20 marzo) Dalla Chiesa sparge retorica a volontà, ma soprattutto senza volerlo, offre la migliore recensione e conferma della tesi del libro di Barbano sull’Antimafia, il suo ruolo politico, le sue degenerazioni. C’è quasi un senso di religiosità, nelle parole del sociologo milanese, e non solo perché annuncia una manifestazione organizzata da Libera, l’associazione di don Ciotti che fa parte a pieno titolo del pacchetto-antimafia, nella chiesa milanese di S. Stefano. Perché fa assurgere a ruolo politico dalla parte dei buoni (“la storia siamo noi”) “i familiari delle vittime innocenti di mafia”. E, mettendo dalla parte dei cattivi il libro e di conseguenza il suo autore, sotto sotto cade nella vecchia abitudine di dare del mafioso a chiunque abbia un atteggiamento critico nei confronti di chi, nel nome della lotta alla mafia, pretende di giudicare sul piano morale. E magari altera anche le regole del processo e dello Stato (laico) di diritto.
Gli esempi sono tanti e hanno sempre lo stesso presupposto, che vede la mafia come eterna, onnipresente e invincibile, e tutto lo squadrone dell’Antimafia armato fino ai denti pronto a combatterla con ogni mezzo e ogni metodo. Attribuendo a questa parte il ruolo politico di angeli eroici in rappresentanza del Bene in lotta contro il Male. Nando Dalla Chiesa lamenta il fatto che nel pacchetto dell’antimafia militante, proprio quella che Sciascia bollava come “professionista”, nel libro di Barbano sia citata anche l’associazione Libera. Gli racconterò un piccolo episodio che nasconde vanità e arrivismo di certi angeli del Bene. Molti anni fa nella cittadina della cintura milanese di Buccinasco, ingiustamente definita, da quelli che la pensano come Dalla Chiesa, la Platì del nord, c’era uno stabile confiscato alla mafia e quelli di Libera vi avevano messo sopra gli occhi, la chiedevano al Comune per farvi una “pizzeria antimafia”. Il sindaco di allora aveva invece preferito mettere lo stabile a disposizione di una serie di associazioni di giovani, compresi quelli di Libera, che però avevano rifiutato. Perché evidentemente interessava loro, tramite la pizza antimafia, fare propaganda politica e segnarsi una tacca sul cinturone di combattenti.
Se tutto ciò si limitasse al mondo della cultura e della politica, non sarebbe grave quanto il fatto che il dogma di emergenza e sospetto spesso paranoico ha contagiato il processo penale. Protagonisti sono i reati associativi e in particolare l’articolo 416-bis del codice penale, l’affastellarsi di leggi speciali costruite a contorno, a partire dal famoso decreto Scotti-Martelli del 1992 che ha introdotto tra l’altro i reati ostativi e incostituzionali. E poi, cosa più grave, il senso di vendetta nei confronti delle stragi mafiose da parte dello Stato che si era esteso anche alle toghe. E’ davvero obbrobrioso, per usare il linguaggio della professoressa Chinnici, sentir dire “magistrati in lotta”, e lo stesso termine “antimafia” attribuito a chi non dovrebbe essere “anti”, ma freddamente dovrebbe indagare e giudicare ogni singolo reato e di conseguenza ogni singolo indagato o imputato.
Giovanni Falcone è sfuggito a questa trappola dell’antimafia? In parte sì, basta leggere i suoi scritti. Era sicuramente un garantista e mostrava di credere nei principi del rito accusatorio del codice del 1989, introdotto un po’ a cavallo del maxiprocesso, una vera contraddizione in termini anche solo per la sua esistenza. Vogliamo dire una cosa impopolare? Il Maxi fu una trappola per Falcone, per l’Antimafia e anche per il Paese. Quando la professoressa Chinnici afferma che l’imputato di mafia deve essere trattato con le stesse regole che si usano per il ladro di auto, dice qualcosa di così vero da essere ovvio. Ma in quei giorni un po’ tutti avevano perso la testa e forse l’aver escluso dalla Cassazione il presidente Corrado Carnevale, che non era affatto amico dei mafiosi, ma certamente un “ammazzasentenze” quando verificava che non si erano rispettate le regole, è stato un errore che si è poi pagato con i tragici eventi che seguirono quella sentenza.
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