L’Italia è il Paese in cui i concetti di giustizia e ingiustizia vivono mescolati e talvolta sovrapposti. Sanzionata dalla Commissione europea per gli inaccettabili tempi lunghi dei procedimenti, condannata dalla Corte europea dei diritti umani per le condizioni invivibili delle carceri, quella che fu la culla del diritto – la patria di Cesare Beccaria – è diventata negli ultimi decenni la maglia nera della civiltà giuridica. Perché da noi c’è la mafia, viene detto. E in nome della lotta alla mafia tutto è lecito, tutto è accettabile: le storture dello Stato di diritto, le curvature delle garanzie costituzionali. Tutto.

La piaga giustizialista diventa parte di una Costituzione materiale, di una normativa non scritta che si trasforma in prassi dell’agire collettivo. Istituzionale e non. Con uno snodo di poteri che si fa esso stesso cabina di regia e incarnazione di interessi: i professionisti dell’antimafia sommano Procure e redazioni televisive, correnti della magistratura e movimenti politici, testate giornalistiche e associazioni, onlus, funzionari ed esecutori commissariali. Eccola, come la dipingeva già 35 anni fa Leonardo Sciascia, la rete dei professionisti dell’antimafia. Fondato su decenni di sodalizi cementati da patti immarcescibili, il “potere incontrastato e incontrastabile dell’Antimafia”, come lo descriveva Sciascia, è l’hub per il quale passano promozioni e affari, assunzioni e premi. Perché le procure antimafia diventano la punta di lancia di un esercito sempre più sregolato, capace di tutto al di là dei veri risultati. Qualche dato? Il 29% dei detenuti non ha una condanna definitiva, il 15% è in attesa di primo giudizio. E il ricorso alla custodia cautelare non è senza conseguenze: l’anno scorso sono stati pagati 24 milioni di euro di indennizzi per ingiusta detenzione.

Con le Procure antimafia del Mezzogiorno a farla da padrona, in questa classifica del merito al rovescio: Reggio Calabria, Napoli e Catanzaro sono le Procure che commettono più errori giudiziari. Seguono Roma, Catania e Palermo. E non per caso: perché in nome della lotta alla mafia si possono calpestare diritti e ignorare garanzie. Di questo si occupa Alessandro Barbano, il giornalista garantista che ha scritto per Marsilio L’Inganno. Usi e soprusi dei professionisti del bene. Un testo-bussola per orientarsi meglio nel momento in cui Carlo Nordio, il magistrato più garantista, diventa ministro di un governo attraversato dal giustizialismo. Barbano ci mette quarant’anni di esperienza che trasuda dalla pratica delle aule giudiziarie, e che diventano indignazione. La sua diagnosi è critica: «L’attacco alle garanzie liberali è in atto da tempo nel Paese. Viene da un’alleanza tra una parte della magistratura inquirente, rappresentata dalle procure antimafia, le forze politiche della sinistra e dei Cinquestelle in concorrenza tra loro, una parte della burocrazia prefettizia, settori dell’ordine pubblico guidati da un’ispirazione securitaria, liberi professionisti e associazioni di volontariato animati da interessi di lucro. Questo singolare partito trasversale si è assegnato il compito di mettere la democrazia sotto tutela, in nome di una retorica dell’emergenza in cui sfuma ogni differenza tra eccezione e ordinario».

Non lesina i nomi, Barbano: «I giornalisti fondamentalisti di Report» sono la grancassa di questo partito (pag.76, pag. 189). Il braccio armato sono i magistrati che tirano la rete, ne indagano 400 e alla fine, forse, ne condannano quattro. Il capitolo 8 del libro, “le inchieste flop del Super Procuratore”, è dedicato a questa categoria. E i sicari, buon ultimi, sono i commissari straordinari che ricevono in gestione le aziende confiscate. Le spolpano, e una volta inservibili le risputano. Ecco il sistema Saguto, che l’ex direttore del Mattino, Barbano, racconta per filo e per segno. Facendo parlare le vittime, per una volta: gli imprenditori ingiustamente accusati di prossimità con la mafia che una volta assolti non vedranno più tornare in piedi le loro aziende.

Il libro di Barbano è una discesa agli inferi del diritto in cui si fatica a trovare un Virgilio. Si racconta di quel pranzo con Raffaele Cantone, degli sfoghi di Catello Maresca, dell’amarezza di Andrea Cuzzocrea. Quaranta pagine fitte di note giuridiche, di sentenze e di decisioni della Cassazione sugellano un pamphlet che non si limita a leggere la realtà ma prova a indicare qualche soluzione. «Per indebolire questo potere senza freni, che ha tradito il compito assegnatoli dalla democrazia, bisogna revocare la delega che una politica miope ha fatto alla magistratura e che alcune procure hanno trasformato in una leva per mettere le società sotto tutela». Se ne parlerà diffusamente giovedì all’Auditorium in una prima grande presentazione pubblica coordinata da Monica Maggioni con Giuliano Amato, Eriberto Rosso, Giovanni Melillo e Paolo Mieli. Il ritorno alla politica con la P maiuscola: eccola, l’utopia. Il risveglio, prima o poi, da questa lunga notte delle idee che ha sostituito i poteri e confuso troppe volte il bene con il male.

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.