Alessandro Barbano ha scritto un vero manifesto politico. Come è nata l’idea de “La visione”?
È nata perché credo che la funzione del giornalismo debba essere anche quella di provare ad anticipare e non solo raccontare quel che è già accaduto, ma ipotizzare una prospettiva. Con questo libro volevo parlare di cosa si muove nella società, di quali sono le domande sociali e di quali possono essere le riposte.

Muovendo da un assunto di partenza: al populismo si può e si deve contrapporre un ritorno alla politica, alle culture politiche riformiste.
Sì, prendo le mosse dalla constatazione che la democrazia italiana, a differenza di tutte le altre democrazie, ha conosciuto e conosce una quota di populismo strisciante che si aggiunge al populismo consapevole, dichiarato e rivendicato. Una quota di populismo inconsapevole che ne porta il tasso nella classe dirigente e nell’opinione pubblica intorno se non sopra al 50%: un unicum in Europa.

Un quadro a tinte fosche a carico dei “populisti per caso”.
Sono convinto che esiste spazio per una scelta diversa. Oggi abbiamo un’offerta politica segnata da un bipolarismo contrappositivo tra una destra egemonizzata da Salvini e una sinistra in cui l’alleanza incompiuta tra Zingaretti e Cinque Stelle consegna il Pd al populismo ideologico del M5s, rendendolo subalterno e con questo venendo meno alla natura stessa del loro patto fondativo.

Quale conseguenza trae?
L’idea che questa offerta politica possa essere esaustiva non è credibile. Dobbiamo fare ricorso alla cultura politica liberale, quella riformista/socialista e quella popolare per ritrovare le radici che hanno dato forza al nostro Paese nelle scelte più difficili della sua vicenda storica repubblicana.

Tanto più oggi, nel mezzo di una crisi inedita, per molti versi.
La polarizzazione del quadro politico, con una destra sovranista che tutto semplifica e una sinistra frantumata ancora alla ricerca di un’identità, ha imposto una visione «virologica» della crisi, in cui la classe dirigente ha abdicato alla sua funzione di filtro delle decisioni.
Il terzo polo e i progetti di centro in Italia non hanno più funzionato, nella Seconda Repubblica. Eppure vale la pena di interrogarsi se esista lo spazio per un riformismo alternativo capace di sanare la frattura che si è creata fra libertà e responsabilità, uno spazio dove recuperare la complessità del reale che il populismo e un certo giornalismo d’assalto mirano a banalizzare. Un contenitore capace di dare risposte complesse ma credibili a problemi specifici.

“Visione” ha due accezioni. “Vision” indica in politolinguistica una strategia, una visione prospettica. Ma avere una visione significa anche prendere un abbaglio, avere un’allucinazione visiva.
Io cerco di studiare i fenomeni, dati alla mano. E quella di cui parlo è una visione alternativa alla destra e alla sinistra, estranea ai vecchi contenitori e autonoma rispetto alle future alleanze; capace di chiamare alla responsabilità una leadership autorevole e un quadro dirigente plurale, e di attuare scelte ispirate a una visione strategica e non solo tattica.

Intanto però scivoliamo verso l’assolutismo giudiziario.
Io nel libro parlo di integralismo moralistico. Lo stesso che ci ha fatto pensare che il Covid fosse una condanna divina degli eccessi del capitalismo. Si leggeva ovunque che dovevamo espiare, fermare il mondo.

Il compito che certa politica affida alla giustizia, appunto quello di fermare il mondo.
Questa idea del giustizialismo non è di oggi. Arriva in perfetta linea di continuità dopo dieci anni di governo giallorosso, gialloverde e prima ancora, del centrosinistra. La prescrizione sine die non l’ha inventata Bonafede, l’ha inventata uno dei tanti magistrati imbarcati dal Pd per sfidare Berlusconi, Casson. Durante i governi precedenti il guardasigilli Orlando aveva tenuto una politica che aveva aumentato il tasso di giustizialismo in maniera assoluta. Di fronte all’emergenza le democrazie più fragili slittano verso l’illiberalismo.

Forse la riforma della giustizia non si può affidare a chi l’ha affossata.
La giustizia in questo Paese è una macchina del dolore non giustificabile. Ha un impatto sulla vita delle persone che è un grandissimo carico di dolore non giustificabile, che contraddice i valori della democrazia liberale. Prendiamone atto.

La giustizia è stata concepita alla pari con il potere esecutivo e il potere legislativo.
Ed è sbagliato. C’è bisogno di una gerarchia diversa. In una democrazia parlamentare il legislativo deve essere il primo dei poteri. E sottoporre a un controllo democratico il potere giudiziario.

Da dove nasce il vulnus del nostro diritto?
Da un gigantesco equivoco che ha visto slittare il diritto penale dal fatto al reo. Non si condanna più un delitto accertato, si condanna la pericolosità sociale di chi è accusato o anche solo sospettato di aver commesso un reato. Si procede per sospetti preventivi generalizzati e per condanne sociali e mediatizzate. I nazisti facevano lo stesso: incolpavano genericamente gli ebrei di tradire la patria, gli zingari di rubare, condannandoli tutti senza accertare i fatti. Il diritto diventa così illiberale e crea i presupposti per il cosiddetto “secondo binario”, che è il diritto dell’antimafia, qualcosa di orrendo. Pervade la democrazia italiana, freno lo sviluppo delle imprese, confisca patrimoni in assenza di elementi di colpevolezza.

A chi si rivolge questo libro?
A chi crede che sia oggi necessaria una fase di rifondazione del sistema-Paese. A tutti coloro che non si arrendono, e spero siano tanti.

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.