La polemica politica di questi giorni preelettorali si è esercitata sul tema della sovranità, da conferire o meno all’UE con il prossimo voto, prendendo spunto dalle parole pronunciate da Mattarella in occasione della festa della Repubblica Italiana. Una polemica certo pretestuosa. Parlando della pace, che non può essere perseguita rinunciando ai valori fondamentali dell’Occidente e di quella Unione Europea alla quale a suo tempo l’Italia ha “deciso di dare vita con gli altri popoli liberi del continente”, il Presidente ha rammentato il valore della scadenza elettorale per consacrare, ancora una volta, la sovranità storica dell’Unione Europea, espressione del “lascito ideale di quegli avvenimenti fondativi” scaturiti dalla lotta di liberazione e dalla scelta repubblicana. Innegabile l’alto profilo istituzionale del discorso al quale non si può, francamente, obiettare alcunché.

Tuttavia, il tema dell’identità nazionale e della sovranità europea, che ha suscitato le reazioni, pur inappropriate, dei partiti più suscettibili al riguardo, non è un argomento da trascurare in ambito politico. Perché è, in linea generale, un tema serio e per molti aspetti delicato. Che merita un minimo d’attenzione in più. Esiste un’identità culturale di tipo valoriale. Fatta di tradizioni e princìpi ai quali è molto difficile rinunciare tout court senza smarrirsi. Gli adulti, che tale identità hanno guadagnato con la propria, a volte faticosa, esperienza di vita, sono disposti a correggerla se ne capiscono le ragioni e ne apprezzano i vantaggi e i benefici. Ma non a privarsene volontariamente. Temono, com’è naturale, le conseguenze esistenziali che possono derivare da una situazione di subalternità che ogni trasferimento di autorità inevitabilmente comporta.

È un dato antropologico elementare che non va affatto ignorato se si vogliono capire i processi sociali e modificarli culturalmente. I giovani, che ancora non hanno consolidato la propria dimensione identitaria, sono giustamente desiderosi di ogni novità e non a caso sono quelli più pronti a aprirsi ai cambiamenti. Che poi si trasformeranno, una volta acquisiti, nel patrimonio culturale dell’età adulta che, come già i loro padri, si troveranno a difendere perché nel frattempo sarà diventato il filo conduttore della loro vita, altrettanto irrinunciabile. Naturalmente, la storia poi segue i suoi percorsi che il flusso degli eventi del mondo uniti ai sentimenti umani rende inarrestabili. Ma il compito della buona politica è capire le paure e confortarle in linea con le loro cause culturali. Dimostrando, cioè, la bontà dei rimedi e il senso e il valore per tutti di una prospettiva che le risolve in meglio; e non criticando chi, avvertendole, le esprime. Che se non convinto resterà sulle proprie posizioni, espresse o tacite che siano, per quanto lo si biasimi e gli si ripeta che è inadeguato. Come i voti dimostrano e anche le astensioni.

E, a questo proposito, c’è un altro dato elementare che non si può ignorare e che conforta. Un semplice dato storico. Da soli, adulti o giovani non avrebbero potuto annodare il filo conduttore che fa di noi una nazione sovrana. Perché tale filo identitario, da tanti orgogliosamente rivendicato, non è altro che la declinazione, in un arco temporale contemporaneo e in uno spazio geografico frazionato, di un’altra identità, ben maggiore della prima e più vincolante, che ha il nome di Civiltà occidentale. Un paradigma di pensiero espressione di una storia millenaria e che ha plasmato la mentalità dei popoli d’Europa, in qualunque regione della sua sfera d’influenza vivano. Così come è avvenuto, sulla scorta di altri paradigmi, in tutte le civiltà del globo. Senza l’Europa, la sua storia e la sua civiltà, non saremmo stati Italiani. Né potremmo oggi pensare italiano, facendone una bandiera d’identità, se non pensassimo, da tempo immemorabile, europeo.

Il benessere culturale dell’Europa dovrebbe, di conseguenza, essere la priorità di tutti coloro che si apprestano a rinnovare il patto di civiltà su cui l’Unione Europea si fonda, perché il suo buon esito riguarda tutti, indistintamente. Cercando insieme la soluzione migliore da perseguire per raggiungerlo senza suscitare timori ingiustificati, ma dando voce alle speranze e dando la forza della ragione all’unione delle volontà, così da superare le conflittualità d’interessi spiccioli nazionali. Spetta alla politica – la buona politica, ci auguriamo – la responsabilità di questo compito unitario che lo scenario mondiale, peraltro, rende sempre più urgente. Ed è questo l’impegno che dovremmo pretendere dagli eletti al Parlamento europeo, che dovrebbero essere chiamati a far sintesi delle molte differenze e a armonizzarle senza mortificarle. Nel rispetto della migliore tradizione culturale europea che di umanesimo e razionalismo ha fatto uno dei fattori della sua grandezza storica.

Patrizia Torricelli

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