A partire dai primi mesi del 2021, il tasso di inflazione dell’Eurozona ha iniziato una costante corsa verso il rialzo; dallo 0,9% di gennaio 2021 si è arrivati nell’ ottobre 2022 a superare la soglia del 10%. Un picco che non si vedeva da decenni, numeri che avevamo dimenticato, ben lontani dall’obiettivo di medio termine del +2% che la poco conciliante Presidente della Bce Christine Lagarde punta a raggiungere, costi quel che costi. Una crescita dell’inflazione che preoccupa fortemente i Governi di tutti i Paesi, ben consapevoli delle pesanti conseguenze che questo fenomeno porta su cittadini e imprese: erosione del potere d’acquisto, minori consumi delle famiglie, riduzione degli investimenti delle imprese, calo dell’occupazione. Una crescita che mette in apprensione le Autorità monetarie, allarmate dall’indebolimento della moneta e dal rischio di perdere credibilità rispetto all’obiettivo primario di mantenere la stabilità dei prezzi.

È questo il panorama in cui, nel luglio del 2022, la Banca Centrale Europea, dopo decenni di politica monetaria espansiva, decide di mettere in campo lo strumento principe, almeno nelle teorie economiche, per il controllo dell’inflazione: l’aumento graduale e duraturo del tasso di interesse di riferimento della politica monetaria, nella convinzione che nell’area euro si manterranno comunque le condizioni affinché l’economia possa crescere. Il ragionamento, volendo semplificare al massimo la questione, è semplice: con questa manovra chiedere in prestito denaro costa di più, risparmiare denaro rende di più. Di conseguenza, le famiglie e le imprese tendono a limitare i loro consumi e i loro investimenti, la domanda si riduce, permettendo così ai prezzi di “raffreddarsi” con il conseguente calo del tasso di inflazione. Ma è davvero tutto così elementare e scontato? Dobbiamo allora pensare che avesse ragione Milton Friedman, che nel 1963, nel suo “A monetary history of the United States” sostenne che l’inflazione è sempre e dovunque un fenomeno monetario? La risposta non è semplice, considerato che il meccanismo di trasmissione tassi di interesse è spesso incerto, complesso e non privo di controindicazioni.

Partiamo dal presupposto che l’inflazione in area euro, diversamente da quanto accade negli Stati Uniti, è un’inflazione da offerta, da prezzi, determinata ed alimentata non da un surplus di domanda di beni e servizi ma dall’aumento dei costi delle materie prime o dall’improvviso calo di offerta dovuta a riduzioni della produzione per fattori esogeni (per esempio l’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione russa o l’epidemia di Covid19). In questo panorama, sia la Bce che il Fondo Monetario Internazionale hanno messo sul banco degli imputati, fra gli altri, il mondo imprenditoriale, accusato di aver incrementato i prezzi dei propri prodotti in misura maggiore rispetto all’aumento dei costi di produzione al fine di salvaguardare o anche aumentare i margini. Al comportamento di queste aziende viene quindi imputata una buona parte della responsabilità della fiammata inflazionistica, molto più di quanto non lo sia stata l’effettiva crescita dei costi delle materie prime.
In altre parole, quindi, molte imprese starebbero approfittando della situazione, come confermato dal forte incremento degli utili di vari settori industriali, che continua anche se molte problematiche che avevano effettivamente causato un aumento dei costi di produzione – la pandemia, la difficoltà negli approvvigionamenti, il costo dell’energia – sembrano ormai risolte o hanno comunque perso la loro forte spinta iniziale. In una simile situazione, lo strumento della politica monetaria restrittiva per il controllo dell’inflazione rischia non solo di perdere molta della sua efficacia, ma addirittura di fare danni e portare con sé effetti recessivi che alla fine potrebbero essere ancora più pericolosi dell’inflazione.

La politica monetaria restrittiva rischia infatti di innescare una nuova crisi dell’economia globale a distanza di poco più di due anni da quella drammatica causata dalla pandemia. Quindi sulle base di queste considerazioni, faccio mie le parole del prossimo Governatore della Banca d’ Italia, Fabio Panetta, che in tema di rialzo dei tassi ha saggiamente dichiarato “dovremo essere risoluti ma giudiziosi, con l’obiettivo di abbassare l’inflazione senza danneggiare inutilmente l’attività economica”. L’aumento dei tassi, con le ovvie conseguenze di ulteriori riduzioni dei consumi, di calo degli investimenti, di aggravio pesante delle rate dei mutui e dei prestiti, metterebbe sulle spalle di tanti italiani un nuovo, pesante fardello. Ma in questo panorama i cittadini, i consumatori hanno a disposizione un’arma importante, che può fortemente contribuire a raffreddare l’inflazione: modificare le loro scelte di acquisto. Evitare di comprare prodotti che hanno registrato aumenti di prezzo ingiustificati, indirizzare le loro scelte verso prodotti made in Italy, made in Europe, a km. zero, mettere in pratica una politica di acquisto parsimoniosa e ragionata che spinga il mercato a riposizionarsi.

E la prima che dovrebbe dare il buon esempio è proprio la Presidente Lagarde, che non perde occasione per sfoggiare splendide mantelle e brillanti da molti carati… Ci sarebbe poi la necessità di trovare il modo di trasferire parte degli ingenti incrementi di utili di molte aziende, in primis i colossi energetici partecipati dallo Stato, alle buste paga dei lavoratori, migliorandone il potere di acquisto, ma questo è tutto un altro discorso. Parliamone.

Gianfranco Librandi

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