Acune storie, alcune pagine atroci della storia si eternano in istanti che non passano e in cui sofferenza e sangue colorano il cielo, le acque del mare, e la terra. Terra rossa, come vien definita l’Istria, ma in questo caso non per il processo di rubefazione bensì per il sangue di quanto avvenne lungo il confine orientale nei giorni della furia della Seconda guerra mondiale. Il 4 ottobre del 1943, esattamente ottanta anni fa, la studentessa di Lettere Norma Cossetto pativa una sorte talmente inumana e bestiale, da parte dei partigiani Titini, che si fa fatica ancora oggi a parlarne.

Eppure, l’esigenza della memoria, come ha riaffermato il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni nel suo messaggio in ricordo della Cossetto, è imprescindibile in qualunque autentico percorso di nation-building e proprio per questo, dopo la istituzionalizzazione del Giorno del Ricordo, diventa necessario, vincendo il silenzio, spesso imposto e di comodo, tenere vivi quei fermenti di micro-storia che pure, nella loro baluginante, straziante consistenza costituiscono le terminazioni nervose di un popolo. Un popolo che pure, ancora oggi, e forse soprattutto oggi, in cui alla politica si aderisce con spirito calcistico e sempre più manicheo, epidermico, avrebbe necessità di quella memoria condivisa: e quando si dice ‘memoria condivisa’ non si intende una oleografia che metta tutto, indistintamente, nell’unico calderone dell’oblio storico, ma si parla di quella forza, malinconica e vitale, che aveva animato Cesare Pavese nella contemplazione dei cadaveri della guerra civile, su quei prati un tempo in fiore, ora arsi e macchiati di sangue, dove le divise di vari colori componevano arabeschi che divenivano Italia.

Il calvario quasi martirologico patito da Norma Cossetto, le inenarrabili, sadiche violenze a cui i suoi carcerieri Titini la sottoposero, violenze, come quelle delle Foibe, che non potranno mai trovare alcuna giustificazione, se non quelle fornite nell’abisso dell’odio di parte che ancora oggi latra e sputacchia il proprio liquame, appartengono alla costellazione dell’identità italiana e della storia di questo sfortunato Paese che nella divisione, da sempre, ha trovato il suo centro di gravità.

E che invece avrebbe bisogno non di stilare gerarchie della sofferenza o polemizzare sui morti, ma di rispettarli, di rispettarne la voce, il senso, il corpo martirizzato, di ricordare quelle urla, quella fine, quel soffuso languore rossino delle torce e del ventre magmatico degli orridi sposati nella danza della memoria condivisa con quanto patirono gli internati nei campi di sterminio, tutti affratellati non nel nome di un generico senso di appartenenza alla umanità, come se poi ciò non fosse già abbastanza, ma come presenza nella memoria. ‘Noi siamo la nostra memoria/noi siamo il chimerico museo di forme mutevoli/questo mucchio di specchi rotti’, ha scritto Borges.

Ecco, noi siamo memoria, e ricordare questa elementare verità è prendere in mano il proprio destino di nazione, di popolo. Questa necessità la colse con grande lucidità Luciano Violante, quando in occasione del suo discorso di insediamento quale Presidente della Camera, enunciò l’importanza fondante della memoria condivisa indispensabile per “determinare i confini di un sistema politico nel quale ci si riconosce per il semplice e fondamentale fatto di vivere in questo paese, di battersi per il suo futuro, di amarlo, di volerlo più prospero e più sereno”. Questa è la lezione della memoria. Il sigillo più vivo e potente irradiato da Norma Cossetto.