Quando ormai più di un anno fa la pandemia da Covid-19 ha travolto il mondo intero registrando un numero di contagi e vittime sempre più allarmante, il Vietnam si ergeva a modello contro la battaglia all’epidemia. Se pensiamo che il primo caso di contagio è stato registrato nel gennaio 2020, dopo un anno i dati ufficiali contano 2.865 casi e 35 decessi in totale su una popolazione di oltre 97 milioni di abitanti. Una statistica davvero impressione considerando l’elevata concentrazione demografica e soprattutto la percentuale dei decessi, che è rimasta pari a zero per i primi mesi dello scorso anno. 

Ciò testimonia come il Vietnam sia diventato il Paese con il maggior controllo del Coronavirus, grazie alle misure di isolamento e chiusura totale intraprese dal governo mirando non soltanto ad arrestare la diffusione del virus su tutto il territorio, ma soprattutto impedendo gli ingressi. Infatti, la caratteristica principale del modello vietnamita contro la diffusione dell’epidemia è stata quella di sigillare i confini con regole molto rigide. Da metà marzo dello scorso anno il Vietnam ha sospeso il visto a tutti gli stranieri, ha bloccato i voli e ancora oggi l’ingresso è sbarrato ai forestieri. Mettere piede nel territorio asiatico, tuttavia, non è impossibile anche se è consentito soltanto alle persone di nazionalità vietnamita e a determinate categorie di persone provenienti dai Paesi a basso rischio di contagio. In queste eccezioni, rientrano le persone che vogliono fornire assistenza medica o altra assistenza specializzata e gli uomini d’affari, i quali garantiscono la funzionalità e la ripartenza dell’economia del Paese. Queste condizioni, però, prevedono la richiesta di permessi speciali, come un visto attraverso il partner o il consolato di cooperazione vietnamita, e bisogna trascorrere una quarantena totale di 21 giorni sotto sorveglianza statale in una struttura designata dal governo in cui verranno sottoposti al test due volte, in entrata e uscita. Come ha sostenuto Mark Jit, epidemiologo della London School of Hygiene and Tropical Medicine, “meno contagi ci sono, più le restrizioni al confine hanno valore: funzionano meglio quando sembrano eccessive, prima o dopo che la trasmissione del virus abbia luogo”.  Infatti, questa pratica di contenimento è stata attivata sin dagli albori della pandemia anche in riferimento alla confinante Cina, epicentro della pandemia.

L’altra caratteristica principale di questo primato sono i lockdown mirati ad intermittenza; basta infatti anche solo un contagio nel proprio quartiere per far scattare il totale isolamento, impedendo la libertà di movimento. In questo modo, il rischio di contagio viene congelato e i casi mantenuti sotto soglia. Così, dopo esattamente un anno il Vietnam si ritrova ad essere uno dei Paesi, insieme a Taiwan, ad aver bloccato la pandemia prima di aver iniziato la campagna vaccinale. La vita dei cittadini vietnamiti, infatti, è ritornata alla quasi normalità con libere uscite e aperture di qualsiasi tipo di attività, anche se il livello di allerta resta sempre alto e i provvedimenti in atto sono provvidenziali e funzionali. Un esempio tra tutti è l’utilizzo dei dispositivi di protezione, come le mascherine, che continuano ad essere obbligatori.

Questo ha fatto sì che sin dallo scorso anno il Paese asiatico fosse oggetto di studio, dal punto di vista medico, sociale ed economico. Se diamo uno sguardo alla vicina Taiwan, con soli 11 morti da inizio epidemia, o alla Corea del Sud e alla stessa Cina possiamo notare quanto l’Occidente sia rallentato nel percorso di riabilitazione alla vita pre-Covid e quanti contagi e decessi vengano tuttora registrati. Il sistema di tracciamento e controllo da parte del governo, oltre al tamponamento tempestivo e mirato dei flussi di contagio, in questo senso ha permesso al Vietnam di dimostrarsi un modello di successo lungimirante nella lotta contro il Coronavirus.