“La febbre, beh, mi faceva arrabbiare perché non avevo nessun sintomo, non sentivo nemmeno i brividi, sapevo di averla solo perché me la misuravano”. Sono le parole di Niccolò, il 17enne di Grado (Gorizia), rientrato da Wuhan, in Cina, sabato scorso, in un’intervista al ‘Corriere della Sera’. “La prima volta – racconta – sono arrivato all’aeroporto di Wuhan il 3 febbraio, pensavo di tornare subito a casa, ma ai controlli mi hanno misurato la temperatura, era 37,7, mi hanno fermato alla dogana, hanno cominciato a farmi domande… sono scesi anche due medici italiani e hanno preso di nuovo la temperatura: 38,2. E mi hanno detto che non era possibile prendermi a bordo, per vari protocolli. E niente, sono rimasto in aeroporto ad aspettare. Ma ero sempre in contatto con la dottoressa Sara e l’ambasciata”. Una lunga settimana di attesa? “Sì, sono uscito solo per tornare in aeroporto dove c’era un volo degli inglesi. Ma mi hanno preso ancora la temperatura ed era 37,4 e anche lì hanno deciso che non potevo salire. Fino all’altro giorno, quando è venuto l’aereo speciale organizzato dallo Stato italiano”.

“La prima notte non ho capito subito quello che stava succedendo, ho telefonato ai miei genitori e pensavo che erano lontani e mi aspettavano. Subito dopo all’ambasciata e… sì, un po’ di paura, ma panico mai. Mi sono detto: se vai in panico non risolvi nulla. Ho pensato di doverla prendere come una lezione della vita e sapevo di non essere solo, che un sacco di persone mi stavano aiutando. La seconda volta mi sono arrabbiato, non era possibile, ancora la febbre che io non mi sentivo di avere. Ma fuori ad aspettarmi questa volta era rimasto Mr. Tian… e beh, è stato diverso dal 3 febbraio”, dice ancora il 17enne di Grado.

Che poi riferisce di essere andato a Wuhan “per caso. Ero in Cina da agosto, con un gruppo di cento studenti italiani del programma Intercultura. Io stavo in una famiglia cinese al Nord, nella provincia di Heilongjiang. Il 19 gennaio siamo andati nello Hubei, a visitare i nonni della coppia che mi ospitava. Un villaggio di campagna, 50 case. E quel giorno sono arrivate le notizie dell’epidemia. Sono rimasto chiuso lì, fino al 3 febbraio”.

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