La richiesta di alcuni Presidenti di Regione (specie di centrodestra) di ridurre da ventuno a cinque i parametri sulla cui base esse vengono classificate in zone gialle, arancioni o rosse (rapporto tra positivi/tamponi; indice di trasmissione (Rt); percentuale di occupazione dei posti letto Covid sia in terapia intensiva che in area medica; numero e tipologia di figure professionali dedicate al contact tracing), ripropongono ancora una volta il problema del rapporto tra politica e scienza. Tema risalente ma quanto mai cruciale nell’attuale pandemia, visto che i dati e le valutazioni (segretate) degli organi tecnico-scientifici di cui il Governo si è circondato sono spesso (e volentieri) invocate a supporto di decisioni, specie se impopolari. Non a caso, replicando a tali richieste, il ministro per gli Affari regionali Boccia ha affermato che senza tali parametri vi sarebbe solo una eccessiva discrezionalità politica.

Non c’è dubbio che il rilievo, se non la dipendenza delle decisioni politiche e giudiziarie dai risultati scientifici è sempre più crescente man mano che il progresso scientifico e tecnologico si diffonde, toccando financo ambiti strettamente connessi ai diritti fondamentali della persona. Oggi la scienza determina non più, come accaduto in passato, ad esempio il superamento del monopolio televisivo pubblico (grazie oggi alla diffusione del digitale terrestre e satellitare) o il livello ottimale di tutela ambientale, ma anche le questioni relative all’inizio e alla fine della vita, l’identità sessuale, la procreazione, il riconoscimento e disconoscimento dei figli, la privacy e, per l’appunto, il diritto alla salute.

Per quanto si tratti di un tema, quindi, in continua evoluzione e anche per questo delicato e complesso, dalla giurisprudenza specie costituzionale, si possono trarre utili indicazioni sugli opposti errori che non bisogna commettere per mantenere il rapporto tra politica e scienza nel corretto equilibrio. Da un lato, la discrezionalità legislativa non può ignorare o eludere i limiti posti dalle acquisizioni scientifiche e sperimentarli in determinate materie per le quali quindi esiste una vera e propria “riserva di scienza”. Diversamente il potere legislativo abuserebbe del proprio potere. Così, ad esempio, in materia terapeutica, il legislatore deve rispettare l’autonomia professionale e la responsabilità del medico, imponendo trattamenti che invece scientificamente danneggiano la salute (così la Corte costituzionale nella sentenza 151/2009 quando dichiarò incostituzionale il divieto di produrre e impiantare più di tre embrioni per evidente pregiudizio alla salute della donna).

Di contro, l’attività del legislatore non può limitarsi ad apporre il “timbro” sul dato scientifico quando su di esso non c’è consenso nella comunità scientifica (si pensi al c.d. caso Di Bella) o esso si presti a valutazioni discrezionali. È illusorio e pericoloso il solo pensare che la scienza sia sempre di per sé assoluta ed oggettiva e che quindi da essa possano trarsi indicazioni univoche che il politico, quasi in preda ad un timore reverenziale, debba solamente recepire e formalizzare giuridicamente.

In definitiva, la politica deve basarsi sulle evidenze scientifiche ma non dipendere da essa perché le sue scelte non devono essere sempre conformi a ciò che la scienza consente di fare. Il legislatore, quindi, non può ingerirsi nei fatti della scienza ma di essi deve necessariamente tenere conto, senza recepirli passivamente quanto piuttosto rielaborandoli sulla base di valutazioni d’interesse politico generale. Così è stato per esempio per le vaccinazioni, un tempo obbligatorie, poi facoltative ed ora nuovamente obbligatorie per decisione degli organi di governo basate sui nuovi dati epidemiologici, anche in nome del principio di precauzione, e di cui essi si sono assunti la responsabilità politica (Corte cost., sentenza n. 5/2018).

Alla luce di tali considerazioni, la proposta di rivedere i suddetti indicatori potrebbe essere meritevole di considerazione solo se, in partenza, si dimostrino le ragioni scientifiche che inducono a ritenere errati o superabili quei 21 parametri sui quali le Regioni espressero il loro unanime assenso il 30 aprile scorso, quando furono individuati con decreto del Ministro della Salute. Diversamente è difficile scacciare il sospetto che le motivazioni di tale proposta siano da ricercare piuttosto nell’obiettivo di diminuire i livelli di restrizione. E, com’è noto, a pensare male si fa peccato, ma talora ci si azzecca.