Nel film “Oltre il giardino” (1979) il protagonista, interpretato da un grande Peter Sellers, è un minus habens, analfabeta, che ha trascorso tutta la sua vita in una villetta di Washington a occuparsi del giardino e a guardare la tv che per anni ha costituito il solo collegamento con il mondo esterno. Alla morte del proprietario, che lo aveva accolto fin da bambino, si ritrova in mezzo alla strada, con una valigia di vecchi abiti di lusso e un disarmante candore. A seguito di un banale incidente – mentre se ne va in giro, sperduto, per la città – finisce ospite di un magnate molto influente nell’establishment della Capitale.

Il giardiniere, sciorinando una serie di banalità su fiori e piante, viene scambiato per un economista illuminato che si esprime attraverso metafore rivelatrici di una profonda saggezza, tanto che diventa un riferimento per i media e per lo stesso presidente Usa. Interrogato sulla crisi economica in cui versa il Paese, Chance (così si chiama il nostro) risponde che nel giardino dopo l’inverno tornano la primavera e la fioritura. Queste parole vengono considerate una puntuale analisi sul futuro dell’economia nei suoi andamenti ciclici; e il giardiniere diventa un ospite fisso nei programmi televisivi, acquista popolarità tanto che le lobby pensano che potrebbe essere un buon candidato alla Casa Bianca.

Ecco, a noi in quest’ora tragica servirebbero un Giuseppe Rossi o un Gennaro Esposito (magari più svegli di Chance Gardiner, perché siamo più smaliziati degli americani) i quali, invitati nel programma di Massimo Giletti (che non è nuovo a scovare dei personaggi strani), obbedissero al buon senso comune affermando a proposito del Covid-19: «Noi chiudiamo tutto e il virus si affloscia; poi riapriamo credendo di averla fatta franca e il virus ritorna. E noi richiudiamo di nuovo… e così via». Chissà? Forse un ragionamento tanto banale ci indurrebbe a riflettere su un dato di fatto: noi stiamo rincorrendo il Covid; ma solo nel paradosso di Zenone la tartaruga (la medicina) è in grado di competere con Achille piè veloce (un virus sconosciuto che non trova negli esseri umani degli anticorpi in grado di contrastarlo). Ecco perché è venuto il momento di guardare in faccia la realtà ed evitare i soliti errori. Esiste innanzitutto un problema di organizzazione del sistema sanitario: evitare il collasso delle strutture ospedaliere che non sono in grado di fare fronte da sole agli effetti del contagio.

Come ha certificato la Corte dei Conti: «La riorganizzazione della rete di assistenza e l’uso complessivamente più appropriato delle strutture ospedaliere non sempre sono stati accompagnati in questi anni da un’adeguata offerta dell’assistenza territoriale rivolta alla parte “più debole” della popolazione, cioè anziani e disabili». Il contagio da coronavirus è senz’altro una patologia gravissima, ma anche una normale epidemia di influenza stagionale manderebbe in tilt i nosocomi più attrezzati se tutti coloro che la contraggono si presentassero ai Pronto Soccorso e si facessero ricoverare pure coloro che ne soffrono di una forma seria, ma non grave, occupando un letto per diversi giorni, a scapito di altri malati con patologie importanti. Durante la prima fase della pandemia sono stati rimandati 300mila interventi, 8 milioni di visite e 1,4 milioni di accertamenti e screening.

Come ha detto in un’intervista il virologo Matteo Bassetti, solo coloro che devono essere sottoposti alla terapia d’ossigeno devono essere curati in ospedale; gli altri vanno affidati, nella loro abitazione e con farmaci sintomatici, al medico di base. Le medesime considerazioni sono state effettuate dal prof. Roberto Bernabei, un famoso geriatra del Policlinico Gemelli, il quale sostiene che il Coronavirus va ritenuto una malattia “normale”, perché come tutte le malattie infettive colpisce i soggetti più fragili affetti da altre gravi patologie croniche (diabete, ipertensione, tumore, malattie cardiologiche, ecc.). Fin dalla prima settimana, a marzo, il 90% dei decessi riguarda persone con un’età media superiore a 80 anni e sofferenti di almeno altre tre patologie. Su 35mila defunti – ha detto Bernabei – solo 90 hanno meno di 40 anni e 14 non avevano precedenti patologie.

Allora, per essere utili i lockdown devono servire a superare i limiti di un Servizio sanitario che non è in grado di mettere in campo dei filtri nel territorio (i medici convenzionati sono 45mila, 11mila quelli della Guardia medica), pur disponendo di importanti risorse professionali. In caso contrario si continuerà a giocare a nascondino col virus in attesa di un vaccino capace di sconfiggerlo (ben sapendo che non sarà mai in grado di estirparlo). Quanti sostengono che sono necessari più medici e infermieri (e criticano il governo per non aver proceduto alle assunzioni) devono innanzitutto trovarli e formarli adeguatamente nelle discipline specifiche che occorrono per questa patologia. Purtroppo non esiste in tali professioni un “esercito di riserva” a cui attingere. In dieci anni – per esempio – sono andati a lavorare all’estero 11mila medici formati in Italia: il che non è negativo di per sé, quando si mettono in circolazione esperienze in un mondo globalizzato; purché non si tratti di una sottrazione di capitale umano quando il trasferimento è stabile e non vi sono movimenti in senso contrario.

Un secondo problema è quello della comunicazione. È vero che nei dibattiti non domina più una sorta di “pensiero unico”; ma non si può affrontare il problema dei contagi, degli infetti e dei decessi, come se il Covid fosse l’unica patologia di cui preoccuparsi, senza distinguere tra i casi di diversa intensità della malattia e senza fornire una rappresentazione della letalità in termini rapportati ad altre patologie. Siamo tornati all’equazione della prima fase: contagio = morte. Infine si pone una questione cruciale di carattere etico-politico. Come ha ricordato su Il Foglio Luciano Capone, «l’età mediana dei deceduti (da Covid-19, ndr) è più alta di 30 anni rispetto a quella dei positivi. La letalità – prosegue Capone – diminuisce nettamente al diminuire dell’età: i deceduti con meno di 50 anni sono l’1% del totale, quota che scende allo 0,2% sotto i 40 anni (….). Ciò su cui c’è però molta meno consapevolezza, e di cui si discute poco, è che le misure di contrasto al Covid colpiscono più duramente i giovani».

Tra pochi mesi raggiungerò la soglia degli 80 anni e mi chiedo: «Che diritto ho io – che dalla vita ho ottenuto quasi tutto con facilità per il solo fatto di vivere in un periodo storico probabilmente irripetibile – di sfasciare l’economia, di lasciare sulle spalle delle future generazioni (e dei miei nipoti) un debito pubblico enorme, di privare i giovani di un impiego (visto che per loro non è operante il blocco dei licenziamenti) al solo scopo di rubacchiare qualche anno di vita in più?». In una situazione sanitaria, peraltro, in cui sarei supertutelato solo contraendo il contagio maledetto, perché se fossi affetto da un banale carcinoma o da un malanno cardiocircolatorio, sarei considerato un rompiscatole a cui si chiede di ripassare, perché questi malanni non fanno tendenza. Durante la prima fase della pandemia – infatti – sono stati rimandati 300mila interventi, 8 milioni di visite e 1,4 milioni di accertamenti e screening. Quanti di costoro ci hanno lasciato le penne? E questa trafila è già ripartita.

Noi non sappiamo più considerare la morte come un episodio dell’esistenza, come una manifestazione della nostra appartenenza all’umanità. La morte è ritenuta un errore del sistema sanitario, come se le cure e i medici dovessero garantirci l’immortalità. Dovremmo fare tesoro, invece, del monito di un vecchio ricoverato in un ospedale in provincia di Como: «Dottore ho fatto tutto quello che volevo nella mia vita, ho 90 anni, lasciami andare».