La recensione
Cose da fare per farsi del male, una carrellata di tenerezza amare nel libro di Michele Orti Manara

Una carrellata dal sapore a tratti amaro, ma senza che l’autore rinunci a infondere nelle sue storie la giusta dose di tenerezza, di personaggi scissi e sul confine fra un passato insoluto e un presente non ancora risolto. In “Cose da fare per farsi del male” (Giulio Perrone Editore), Michele Orti Manara costruisce una liturgia di racconti brevi, legati insieme dal filo rosso della frustrazione e della paura, che erompono nei percorsi di vita di personaggi molto lontani per esperienze e per età, e che non accennano a stemperarsi. Sono lì, frustrazione e paura, come elementi irrinunciabili di esistenze scandite da miseri dubbi o da piccole sorprese, eventi tragici o fulminazioni luminose. A volte sul margine di quanto accade, a volte al centro esatto della scena, frustrazione e paura palpitano in ogni storia, ma forse è proprio questo lo scopo dei personaggi: imparare a farci i conti, carezzando le delusioni e accettando l’incompiuto, non negarsi gli sprazzi di vita che pur resistono fra le mancanze. “Cosa fanno le persone quando non le stiamo guardando?
In pubblico fingiamo tutti così tanto che non c’è modo di sapere quel che succede quando ci chiudiamo una porta alle spalle e restiamo soli con le nostre cose, i nostri difetti, i nostri odori.” La consapevolezza della perdita s’accende nello spazio solitario del nostro rimuginare, come accade alla protagonista di “Tuo padre che affoga”, orfana di entrambi genitori, testimone diretta nell’infanzia, e interprete ora nei ricordi, di due vite spezzate dall’infelicità. Una madre che trascorre i giorni a letto, un padre regista sempre in procinto di realizzare il film che gli cambierà la vita, fino poi alla morte e alla chiusa d’ogni speranza. Si narra di morte anche nel racconto, “La voce del lago”. Stavolta è Ester ad aver perso suo marito, lei che fatica a prendere le misure di quell’assenza, lei anziana e con un principio di artrite, che affacciata alla finestra osserva la pioggia inzuppare il prato e gonfiare il lago, infiltrarsi coi suoi gelidi spifferi dentro la casa.
Le finestre andrebbero sostituite, ma dato che era suo marito a occuparsi delle riparazioni, l’unico scorcio possibile è una rassegnazione sconsolata, seguita dall’involontario rinnovarsi dei ricordi: il passato, e i fantasmi che lo abitano. L’andamento è simile, seppure diverso sia il soggetto, in uno degli ultimi racconti della raccolta: “V”. L’interstizio tra la realtà e la finzione, tra il dolore e la speranza, la paura e il coraggio o più semplicemente il passato e il presente, è rappresentato in modo plastico da quanto invade la vita del piccolo protagonista: l’incubo inizia da dentro la tivvù, da quello che Guido non avrebbe dovuto guardare ma che ha sbirciato nascosto dietro le spalle del nonno.
L’irreale può trasformarsi in una potente minaccia quanto la ruvida realtà di un lutto, o della perdita, dei desideri mancati e delle sconfitte che bruciano, ciò che appare come estraneo e lontano dalla consuetudine diventa invece familiare, è l’eco di qualcosa che ci appartiene, di qualcosa a noi noto e poi rimosso, che torna alla luce ora sotto le vesti del perturbante. Terreno d’elezione di molte storie è l’infanzia, con le sue domande e le sue paure: il primo claudicante approccio al male di un’età in cui l’innocenza è ancora intatta. E tuttavia, che si tratti di bambini o di adulti, dopo lo scroscio di sentimenti cupi come il dolore per la morte, l’inquietudine dovuta all’insuccesso, le delusioni o la stanchezza, c’è verso la fine sempre un’apertura, e poco importa se sia reale o dipenda dal principale strumento di sopravvivenza contro la vita: e cioè, l’invenzione. Ecco allora una passeggiata di dischi volanti fra le stelle in mezzo al cielo, il suono di una voce che sembra provenire direttamente dal lago, lo scoppio bestiale a cui segue una metamorfosi dell’intera città: è tramite il volo dei propri pensieri, e delle piccole fantasticherie o delle innocue illusioni, che i personaggi restano in piedi, dopo aver evitato con tutte le forze di arenarsi a terra.
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