Nel momento in cui infuria lo scontro politico, la tentazione di ciascuno è quella di scegliere da che parte stare. È un’istinto naturale, perché la politica è scontro. Può essere scontro di poteri, scontro di interessi, scontro di visioni, o tutte e tre le cose insieme. Ma è, comunque, scontro.

L’anomalia italiana, che la pandemia non fa che squadernarci davanti con ancora maggiore e drammatica evidenza, è che lo scontro fondamentale, quello che riguarda chi, in democrazia, debba governare stabilmente per un certo periodo, non è deciso dalle urne, dagli elettori. E sì, perché malgrado ci piaccia tanto dimenticarlo, i governi degli opposti, i ribaltoni o ribaltini, i cambi di maggioranza dovrebbero essere l’eccezione, almeno nelle democrazie cosiddette mature. Da noi non è così, non siamo mai riusciti veramente a fare in modo che fosse così. I governi durano poco, da sempre. Muoiono per sommovimenti parlamentari, per veti incrociati, per implosione, per transfughismo. E nascono quasi sempre per gli stessi motivi. È già successo due volte in questa legislatura. Infinite volte nelle altre che l’hanno preceduta. È una realtà che ci dimentichiamo ogni volta. Inchiodati alla cronaca del momento, in cui esplodono solo le passioni della curva.

La crisi di queste ore non fa eccezione. E ognuno è tentato di prendere posizione, di fare il tifo, in relazione a quelle ragioni di potere, di interesse o di visione che sono alla base dello scontro. Essere tifosi può dare grandi soddisfazioni, gratifica, alimenta il senso dell’identità. Ma una cosa è certa, chi sta sugli spalti a fare il tifo non gioca la partita partita. È uno spettatore. E la democrazia non è pensata per gli spettatori. Ma, oggi, i giocatori della democrazia, i cittadini, non possono giocare. Sia perché realisticamente le elezioni non sono possibili a breve, sia perché, nel campionato italiano, le elezioni non bastano mai a dirimere gli scontri, a stabilire chi vince la partita. Questa è la verità.

In questa legislatura abbiamo avuto già due governi e probabilmente ne avremo un terzo, se le cose finiscono come sembrano dover finire. È la politica italiana. Nessuno dei protagonisti se ne può lamentare. Chi è senza peccato, scagli la prima pietra. E nella vicenda di oggi di peccatori ce ne sono tanti. Non riconoscere questo significa tapparsi le orecchie e chiudere gli occhi, abbandonandosi allo sfogo della curva.

La pandemia cambia le cose? Direi che le aggrava. Perché è a causa della pandemia che ci troviamo senza l’alternativa della soluzione fisiologica, quella delle elezioni. È per la pandemia che ci sono oggi in gioco decisioni, soprattutto in materia economica, che definiranno l’Italia dei prossimi decenni, ma suscitano anche gli appetiti più inconfessabili di chi si affanna nei palazzi del potere. È per la pandemia che assumono un tragico risalto tutte le incapacità, le inconcludenze, le contraddizioni delle gestioni approssimative e abborracciate a cui abbiamo assistito e che non sono altro che l’esaltazione di mali antichi.

È questo il motivo per il quale in tanti, e anche chi scrive, hanno lanciato accorati appelli perché ci si risvegli da questa trance agonistica e agonica e si riconosca che l’eccezionalità della situazione richiederebbe ben altre soluzioni di quelle che tutti i contendenti di oggi ci offrono: il maquillage dello status quo o la rottura al buio. Ci vorrebbe la capacità di una reazione, un sussulto di responsabilità; ci vorrebbe veramente un governo per la salute pubblica: che faccia poche cose, che si concentri su una gestione efficiente e disinteressata dell’emergenza, che selezioni un numero limitato di progetti sui quali concentrare le risorse del recovery plan. E che coinvolga tutte le forze politiche principali. Perché i prossimi anni sono di tutti e non solo della maggioranza occasionale. Ci vorrebbe questo e poi, finalmente, il ritorno alla radice della democrazia. In cui tutti sono giocatori: le elezioni.

Non è ingenuo buonismo, è lucido istinto di sopravvivenza, perché andando avanti così andremo tutti a sbattere di fronte a un paese di cittadini attoniti che stanno perdendo la forza di sperare.
E invece no. Qualcuno vorrebbe che la pandemia fosse l’alibi per continuare ad avvitarci nel nostro immobilismo, nella tragica ripetizione dei soliti riti. Soprattutto che fosse l’alibi per un perdono generalizzato. L’indulgenza plenaria in un paese che muore.

Del resto, da che mondo è mondo, l’autoassoluzione va a braccetto con la demonizzazione di un capro espiatorio cui dare tutte le colpe. Il corpo estraneo che salva tutti. E, ovviamente, nello Stadio-Italia ognuno c’ha già pronto il suo. Contro cui scagliare i propri insulti. Non è questo ciò cui stiamo assistendo? Il fatto è, che, qualunque cosa accada nelle prossime ore, domani saremo sempre noi. Con i nostri problemi atavici e irrisolti. Che non vogliamo affrontare, perché, in fondo, non riusciamo a rinunciare all’ebrezza del tifo.