Non sempre e non esplicitamente, ma spesso e fondamentalmente la querela del magistrato nei confronti di chi scrive cose che non gli piacciono ha natura antidemocratica. Si basa cioè sulla pretesa autoritaria di veder punito l’autore della critica perché questa attenta non già alla reputazione dell’offeso, sebbene alla tracotanza pomposa del potere in cui egli si identifica.

Egli non amministra giustizia: egli “è” giustizia, di modo che fare le pulci a lui significa bestemmiare la sacertà di una missione incoronata. E vale l’opposto, chiaramente: dir male della giustizia o, peggio che mai, di una delle mostrine sociologico-moraleggianti che ad essa sono affibbiate (“Mani Pulite”, “Antimafia”, eccetera), significa molestare personalmente e intimamente chi rappresenta la cerchia. Significa non pulirsi la bocca quando si parla della Famiglia.

Secondo questa impostazione, che oscuramente quanto efficacemente lavora a eccitare un buon numero delle iniziative di querela da parte dei magistrati, la critica è passibile di inibitoria e di sanzione perché si rivolge a lesione di un bene (la maestà togata) rispetto al quale la libertà di opinione è necessariamente condizionata e recessiva. Tu non hai diritto di affermare (e ovviamente puoi farlo con ragione o no, secondo il giudizio di ciascuno; ovviamente puoi farlo adoperando argomenti condivisibili o no, questa è un’altra faccenda), non hai diritto, dicevo, di affermare che una certa cultura della giurisdizione costituisce una vergogna per la società costretta a subirla e per l’ordinamento che ne è contaminato: perché affermarlo sente di eresia, e fornisce a qualunque magistrato il titolo sufficiente a querelarti.

E si noti come nessun’altra categoria (se non, forse, quella non casualmente assai simile costituita dai giornalisti) osi neppure immaginare per sé stessa qualcosa di simile, cioè sentirsi e pretendersi una cosa sola con il proprio potere trasfigurato in feticcio penalmente presidiato.

Che poi la querela del magistrato sia scritta in vernacolo giudiziario, cioè in una favella direttamente intesa dalla colleganza che si incarica di mandarla avanti, è solo l’ultimo dettaglio – si fa per dire – di questa generale stortura.