Affetto da patologie per molti aspetti croniche, il paradigma garantistico della giustizia penale del nostro paese è da tempo – oltre che materia di studio da parte degli specialisti – punto di interesse privilegiato del dibattito pubblico.
Quanti ne rivendicano il carattere di approdo, teorico e politico/ideologico, irreversibile del cammino di progresso della civiltà occidentale, pongono al centro delle riflessioni il suo malfermo stato di salute, testandolo nell’ottica dei parametri weberiani di razionalità secondo i valori e secondo lo scopo.

Gli strumenti messi in campo sono, da un canto, le tante e solide ragioni che fondano un modello di giustizia penale “conformato dalla cultura dei diritti umani”, radicate nei piani intrecciati: i) della storia del pensiero e dei sistemi giuridici, ii) dell’evoluzione politico/costituzionale, iii) della dogmatica e delle norme; dall’altro, la sottolineatura dei limiti e delle contraddizioni che ne attraversano la proiezione nella realtà dei codici e nella prassi giudiziaria.
Del tutto scontato, allora, che per un tema così stratificato vengano ritenuti congeniali e, perciò, sperimentati i soli registri della tradizione discorsiva (monografie, saggi, articoli, commenti legislativi e giurisprudenziali), orditi su trame argomentative complesse che devono farsi carico di compiti di analisi e di critica e che, perciò, hanno bisogno di implementare i predicati della completezza e coerenza.

È accaduto, così, che nel vasto campionario delle tipologie e dei generi che ospitano le discussioni ex professo sia venuto a mancare il “racconto per paradossi e battute”, che utilizza singoli lemmi per fotografare e veicolare – con l’inesorabilità significativa dei vocaboli appropriati – distorsioni, abiure, pezzi di fenomeni degenerativi.
Oggi questa lacuna viene magnificamente colmata dal glossario di quattrocento parole (Apertis verbis. Il devoto della giustizia penale, Mimesis editore), ideato e confezionato dall’ingegno di Lorenzo Zilletti, avvocato di lettere, oltre che di esperienza, e analista che da sempre affida all’icasticità e alla logica del linguaggio assertivo posture di insofferenza verso i multiformi tradimenti della razionalità penalistica promessa dalla Modernità, prima, e dalle metanarrazioni costituzionali, poi.

Preceduto da due incipit di eccezione, una “Premessa” di Vittorio Coletti e una “Prefazione” di Mattia Feltri, il glossario zillettiano dimostra che è possibile raccontare lo sfascio della giustizia ricorrendo a singole parole, spesso declinate nelle forme della freddura, dell’umorismo e del gioco stilistico, talvolta scherzoso, talaltra irriverente, ma sempre semanticamente tagliente, capace, cioè, di mettere il lettore in diretta comunicazione col significato ritenuto rilevante. L’esplorazione attraverso parole non investe soltanto la dimensione della normatività, astratta e agita (o, come si direbbe, on the book e in action), ma anche profili antropologici, casi giudiziari, vissuti umani nei vari livelli dell’esperienza giuridica, principi giuridici, aspirazioni riformiste, il tutto entro una linea di orizzonte definita dal bisogno – come osserva Vittorio Coletti – di «provare ancora e nonostante tutto a non tacere, a non guardare dalla parte sbagliata, a non rassegnarsi a che la verità non venga detta, neppure per scherzo».

Siamo, allora, innanzi a un’opera (politicamente) intelligente e (culturalmente) pregevole, che mette alla berlina il “baratro di giustizia pandemica in cui è sprofondata l’idea liberale di diritto e processo penale” (M.Feltri), facendo far festa alla lingua italiana, nel senso ancora scolpito con performante acribia da Coletti: «congiunge la miglior tradizione della retorica forense (..) alla fulmineità della battuta comica e del doppio senso, declina il tecnicismo in lingua comune, trasforma le citazioni (numerose) in definizioni firmate e le definizioni in allusioni esplicite; svela una verità troppo taciuta con mano coraggiosa e leggera, senza imporla, invitando con un sorriso a una riflessione urgente e indispensabile». Apertis verbis inaugura, dunque, un nuovo registro narrativo e di polemica civile, ma lo pone al servizio di una pratica antica, la parresia, che ignavia e ipocrisia conformistica hanno troppe volte sepolta, ma che l’esigenza di vivere l’effettività dello Stato costituzionale dei diritti reclama a gran voce.