Il radicalissimo movimento studentesco cileno tra un mese esatto si installa alla Moneda, ufficio della presidenza della Repubblica. Gabriel Boric, uno dei leader della rivolta di strada che in due ondate successive tra il 2011 e il 2019 infiammò Santiago, giura l’11 marzo come capo del governo. Camila Vallejo, la giovane comunista che nel 2011 incantò la Cnn spiegando al mondo le ragioni di quella protesta, sarà la sua portavoce. Izquia Siches, che nel movimento stava da indipendente di sinistra, personaggio molto pop perché medico antiCovid molto amata, è ministra dell’interno. Giorgio Jackson, altro capetto del movimento studentesco, è il ministro delle relazioni con il parlamento.

La meno a sinistra nel gruppo ristretto attorno al nuovo presidente del Cile, sarà la ministra della Difesa Maya Fernandez Allende, socialista, nipote del presidente Salvador Allende. Ad attenuare il rosso vivo dell’alleanza con cui ha vinto le elezioni, partito comunista e Frente amplio (agglomerato di sigle cresciute attorno alla protesta), Boric ha chiamato come ministro dell’economia l’attuale presidente della Banca centrale, Mario Marcel, anche lui del partito socialista, partito che non era a fianco di Boric candidato ma che gli è saltato in braccio appena lui ha stravinto le elezioni. L’ultra destra, che in Cile e in tutta l’America latina non è forza esigua, sembra sbandare. A fine 2022 ben sei governi, dei sei Paesi che insieme producono il 90 per cento del Pil continentale, potrebbero essere schierati decisamente a sinistra (al di là della grossolanità della definizione che calza assai poco alla realtà politica di quelle parti). Quattro già lo sono. Cile, Argentina, Perù e Messico, con ovvie e consistenti differenze, hanno al momento presidenti considerati izquierdisti più o meno radicali.

La svolta politica definitiva è attesa per le elezioni brasiliane e colombiane. In Brasile, dove si vota ad ottobre, è favorito l’ex presidente Lula da Silva. In Colombia, primo turno il 29 maggio, i sondaggi danno per vincente il radicale Gustavo Preto. A questa inversione di tendenza continentale non sono estranei gli effetti di due anni di emergenza Covid sulle crisi sociali in corso. L’allargarsi della forbice tra ricchi e poveri e la fragilità dei sistemi sanitari e scolastici non hanno retto l’impatto della pandemia e hanno creato un terremoto economico e sociale. È cresciuta la parte di popolazione che chiede protezione allo Stato e per questo si butta (o ritorna a votare) a sinistra. Esplosioni sociali e vere e proprie rivolte erano avvenute già prima del diffondersi dell’epidemia in Colombia, in Nicaragua, in Cile, in Bolivia e nella Repubblica domenicana. Nei mesi della prima emergenza Covid rivolte ci sono state anche a Cuba, in Perù e in Guatemala.

Le difficoltà create dalla pandemia hanno avuto un impatto devastante nelle fasce sociali più fragili. I lavoratori in nero e i precari – ossia la sostanziale maggioranza dei lavoratori latinoamericani – sono usciti frantumati dall’emergenza. Gli ospedali mal ridotti hanno negli ultimi due anni collassato e chi ha pagato più cara l’assenza di una reale sanità pubblica sono stati i poveri. Le scuole hanno chiuso quasi ovunque ed è stata questa la misura che ha colpito negativamente tutti i ceti sociali: 72 milioni di alunni in America latina al momento ha la frequenza scolastica ancora sospesa. In nessuna altra area del mondo le scuole sono state chiuse tanto a lungo. In questi anni di incertezza e caos il Brasile di Bolsonaro, che tentando disperatamente di cercare sponde politiche sta bussando ora al Cremlino, ha assistito inerte all’espandersi dell’emergenza Covid ormai fuori controllo e al costante deteriorarsi del suo tessuto sociale. È proprio in Brasile che si attende la più esplicita e clamorosa inversione di tendenza politica.

Se nelle elezioni di ottobre si verificherà quel che prevedono i sondaggi, dopo una campagna elettorale all’ultimo sangue tra estrema destra e vecchia sinistra si andrà al ballottaggio tra l’uscente Jair Bolsonaro, pistolero ultraconservatore, e il redivivo ex presidente Lula da Silva, eterna araba fenice riferimento politico dell’intera area progressista latinoamericana. Secondo i sondaggi di Datafolha, l’istituto di ricerca brasiliano più attendibile, al ballottaggio vincerebbe Lula con il 59%. Sarà in ogni caso uno scontro epico, una corsa tra due candidati davvero radicalmente opposti ed una campagna totalmente polarizzata. Un terzo nome pesante in grado di sparigliare le carte al primo turno al momento non c’è. Il più popolare tra i possibili candidati rimane Sergio Moro, l’ex giudice che fece arrestare Lula alla vigilia delle ultime presidenziali alle quali l’ex presidente era dato come favorito. Moro è stato nominato ministro della giustizia da Bolsonaro appena eletto.

Dopo una lunga performance da volto immagine del governo Bolsonaro, Moro ha preferito andarsene e da mesi sta acquattato in attesa di capire come capitalizzare il consenso popolare di cui tuttora gode. Datafolha lo dà come terzo al primo turno con il 9%. L’intera America latina guarda a questo appuntamento elettorale perché è lì che si giocherà la parte sostanziale della partita dei prossimi equilibri regionali. Lula sta preparando una mossa per scommettere di poter vincere già al primo turno, miracolo che finora in Brasile è riuscito solo all’ex presidente Fernando Henrique Cardoso. L’attacco geniale di Lula, la carta che se giocata potrebbe permettergli di annettere tutta l’area di destra moderata oltre che quella di centro, è una mossa difficile ma strategica: presentarsi agli elettori con a fianco come vice il suo ex rivale politico di tutta la vita, l’ex governatore Geraldo Alckmin.

L’uomo forte di Sao Paulo, quello che ha sempre coagulato l’appoggio della finanza e delle imprese che il Pt negli anni di governo gli ha conteso. Alckmin è il grande nome del Psdb, il partito tradizionalmente alternativo al Pt di Lula. Lui, intanto, dal Psdb se ne è andato. Potrebbe essere il segno che la sua disponibilità a Lula l’ha già data. Andasse in porto il ticket per la candidatura, sarebbe la coppia politica del secolo. L’ex sindacalista simbolo della sinistra che si presenta con a fianco un vice popolare quanto lui ma a destra.